Si
apre di prima mattina “Postcards” di James Blunt e si chiude,
dopo l'intervento di Matteo Renzi, con “Ti porto via con me” di
Jovanotti. Giovane, entusiasmante, smart. L'ho visto così, come da
sempre, lo spazio attorno a Matteo Renzi. La Leopolda dei sorrisi,
delle strette di mano, delle pacche sulle spalle. Perchè, in primis,
la rassegna fiorentina del sindaco più amato d'Italia è stata luogo
di buona politica e di idee per il futuro. Ma è stata l'occasione,
per tutti, per rivedersi, chi dopo una settimana, chi dopo un mese,
chi addirittura dopo un anno, riabbracciarsi, guardarsi negli occhi,
e dire “Si, questo paese con te, con voi, si può cambiare”. E'
stata la Leopolda della speranza perchè vedere così tanti giovani,
da giovane, in un luogo dedicato alla politica, non mi era mai
capitato, questo perchè era solo la prima volta che partecipavo alla
convention di Renzi. Tutti i temi affrontati, dal mercato del lavoro
all'agricoltura, dalla cultura alla scuola, fino all'idea di Stato e
di Europa che ci vogliamo dare, racchiudono le speranze degli oltre quindicimila di Firenze, e rispondono ai critici che accusano Renzi di
essere vuoto e non avere contenuti. Io, in verità, oltre agli
argomenti e proposte programmatiche serie, ho visto anche personalità
importanti e di grande
competenza. Mi piacerebbe citarli dal primo all'ultimo, ma nelle
righe lo spazio stringe e allora proprio perchè devo da Cosimo
Pacciani a Davide Serra, da Oscar Farinetti a Graziano Del Rio,
dall'umile imprenditrice agricola “che si sporca le mani” a
Brunello Cucinelli, re del cashmere ed esempio dell'imprenditore
sociale, attento ai bisogni dei propri lavoratori. E
poi arriva Matteo Renzi, che guarda più al paese che al partito. E
fa bene. Perchè la segreteria del Pd non è un fine, è un mezzo,
per riformare il partito, dandogli una visione più aperta, smart,
americana, per poi vincere le elezioni. E allora giocati questa
partita, Matteo. Anzi, giochiamocela.
martedì 29 ottobre 2013
martedì 13 agosto 2013
Argentina sempre a rischio default. Quando le politiche monetarie espansive drogano l'economia
Risfogliando
alcune letture di sabato sul Sole 24 Ore, ho cercato di capire e
analizzare più a fondo un bellissimo articolo a firma di Mauro Del
Corno sulla situazione dell'Argentina, che ormai da un biennio rimane
appesa a un filo con un quotidiano rischio default. Gli argentini ai
default ormai ci sono abituati, si fa per dire, dal momento che ne
hanno collezionati sette nella propria storia, l'ultimo quello del
2001, con un micidiale crack sul debito estero e un enorme bank
run che mise in ginocchio
l'economia nazionale. Il paese ne è poi uscito apparentemente molto
bene, con tassi di crescita di 8-9 punti percentuali, con
una breve stop nel 2009 e poi una ripresa fino al 2011, quando è
tornato un forte rallentamento. Il problema però è alla base.
L'economia argentina non ha solide fondamenta, e a questo si aggiunge
la scarsa lungimiranza della politica nazionale negli anni della
ripresa. Il governo guidato da Cristina Fernandez de Kirchner, mentre
l'economia galoppava, ha iniettato nel sistema politiche monetarie e
fiscali espansive. Allentamento dei vincoli per i prestiti da parte
delle banche commerciali, sussidi al settore privato, Banca Centrale
sempre più forzata a stampare liquidità. Queste le linee guida del
governo argentino, che hanno drogato in maniera quasi irreversile il
sistema economico. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti:
inflazione a quota 25% circa, con seguente perdita di valore
dell'export per via della crescita dei prezzi e una consistente e
perdurante erosione di riserve di dollari. I problemi dell'economia
reale si traducono anche a livello finanziario. I credit default swap
argentini hanno toccato quota 2358 punti base, raddoppiando il
proprio valore e doppiando pure quelli greci. Gli investitori sono
avvisati. Un altro esempio, dei tanti, che indica la forte
instabilità portata da politiche monetarie espansive.
giovedì 8 agosto 2013
Bank of England segue Bernanke e Abe, ma attenzione alla crescita facile
Dagli Stati Uniti al
Giappone, fino all'Inghilterra. L'amore per una politica monetaria
espansiva sembra aver contagiato proprio tutti. Perchè dopo le
pompate di liquidità del premier giapponese Shinzo Abe e quelle del
presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, ora ci si è messa,
ormai da un pezzo, anche la madre patria inglese. L'annuncio di
questa prosecuzione di tale politica monetaria è arrivato proprio
ieri dal numero uno della Banca d'Inghilterra Mark Carney. Si
manterrà una forte propensione all'espansione di liquidità fino a
quando il tasso di disoccupazione nazionale non scenderà sotto la
fatidica soglia del 7%. Un obiettivo che probabilmente sarà
raggiunto solo nel 2016, grazie a un costo del denaro pari allo 0,5%,
il minimo storico tenuto dalla Bank of England. In quasi tre anni da
qui al 2016 tutto può succedere, come una leggera revisione della
politica, nel caso in cui si verificassero condizioni inattese come
un'inflazione superiore al 2% o instabilità finanziaria a causa di
tassi d'interesse troppo bassi. Anche oltre Oceano non se la passano
male. Ben Bernanke sta continuando a portare avanti una forte
propensione alla liquidità, che non si fermerà fino a quando non
saranno raggiunti gli obiettivi di disoccupazione e inflazione. C'è
poi il Giappone, grande trascinatore sul versante di creazione di
moneta, con l'Abenomics messo in campo del primo ministro Shinzo Abe.
E intanto le borse, a parte qualche svarione, ringraziano. Un
esempio, su tutti, Wall Street. Nel 2013, fino ad ora, la borsa
americana ha guadagnato il 19%, oltre 1700 punti. Ora però la
riflessione si fa più complessa. Ha senso mantenere tassi
d'interesse al minimo per mesi e mesi? Lo so, sono abbastanza
ripetitivo, ma ricordiamoci che fu proprio una persistente politica
monetaria espansiva una delle cause principali per lo scoppio della
bolla finaziaria-immobiliare del 2008, che poi a portato a tutto
questo pasticcio, non ancora arginato. Wall Street dovrà pure
ringraziare lo zio Ben per i facili guadagni ottenuti grazie alla sua
politica, ma si deve curare da una lungimiranza messa in discussione
dai fatti già successi dall'ultimo quinquennio. Senza dimenticare
che l'espansione monetaria non fa parte della categoria di politiche
di crescita economica “sane”.
martedì 11 giugno 2013
Abenomics: la causa per una Borsa drogata
Il Nikkei di Tokio sta
recuperando, ma nelle ultime settimane l'indice giapponese se l'è
vista brutta. Continui tonfi borsistici, con forti perdite che hanno
ridotto i grandi guadagni degli ultimi mesi. Sembra che l'Abenomics
non sia più in grado di garantire quella sicurezza che fino a poche
settimane fa aveva monopolizzato il pensiero e le politiche
economiche giapponesi. La politica monetaria fortemente espansiva da
parte del neo premier Shinzo Abe, costituita principalmente da una
forte svalutazione dello yen, ha nel suo obiettivo primario la lotta
alla deflazione, con il raggiungimento di un livello d'inflazione del
2%. Una politica economica forse più appartenente a Krugman che alla
tradizione keynesiana, quest'ultima più concentrata sulla spesa
pubblica che sulla leva monetaria. Questa posizione, tenuta almeno
inizialmente anche negli Stati Uniti, dal numero uno della Federal
Reserve Ben Bernanke, sta lentamente declinando. E' vero, Bernanke
continua a pompare liquidità nel circuito finanziario statunitense,
ma alle prime parole del presidente della Fed su un possibile
ridimensionamento, almeno in terra americana, di tale politica, le
Borse sono andate a picco. L'effetto di questa politica monetaria,
nel breve periodo, fa certamente respirare i mercati finanziari,
dando anche grande impulso a consumi ed export. Detto questo,
l'Abenomics non può essere una condizione continuativa. Bisogna
infatti ricordare un particolare. Una Borsa drogata con utili e
facili guadagni è pericolosa tanto quanto un indice di Borsa ferma o
addirittura in perdita. La crescita in termini borsistici, per essere
sana, deve essere accompagnata da un aumento esponenziale del valore
dei prodotti e del Pil reale. Insomma, la borsa deve andare di pari
passo con l'economia reale. Altrimenti succede come nel 1929 e nel
2008 dove espansioni a livello monetario ed enormi guadagni tendono a
creare troppa euforia, che si traduce poi in bolle speculative,
difficilmente controllabile. Mario Draghi, proprio poche ore fa, ha
ricordato la necessità di intraprendere la strada di forti riforme
economiche, che vadano a intaccare le debolezze strutturali della
nostra economia, “sulla base delle misure che prese la Germania nel
2003”. Libertà d'impresa, liberalizzazioni, riforma del mercato
del lavoro e riforma delle pensioni. Due di queste le abbiamo già
approvate, ora però bisogna riformare fisco e burocrazia per le
imprese.
martedì 30 aprile 2013
Letta ai nastri di partenza, mercati fiduciosi
L'insediamento del governo Letta e il buon risultato
dell'asta dei titoli di Stato, entrambi nella giornata di ieri, hanno iniettato
una buona dose di fiducia ai mercati. Milano regina d'Europa alla chiusura di
ieri pomeriggio, con un +2,2% molto positivo, dovuto anche all'ottima
collocazione dei titoli di Stato: il Tesoro ha piazzato tre miliardi di Btp a 5
anni con un rendimento annuo del 2,85%, in diminuzione rispetto al 3,65% della
scorsa asta, e altrettanti miliardi sui 10 anni, con un tasso del 3,94%, anche
questo inferiore all'asta precedente che aveva registrato un rendimento del
4,66%. La domanda ha toccato però la quota di oltre otto miliardi, per questo
c'è grande fiducia anche per le aste prossime. Notizie positive anche dallo
spread, che è sceso a quota 275 rispetto ai 282 punti base di venerdì.
L'euforismo sui mercati finanziari è certamente anche il prodotto del nuovo
governo presieduto da Enrico Letta, che proprio in serata ha ottenuto il voto
di fiducia alla Camera in larga maggioranza e l'opposizione unica di Movimento
5 Stelle, Sel e Fratelli d'Italia, e con il voto al Senato in programma per
oggi. Di buon auspicio anche le parole del neo presidente del consiglio Letta
nel suo discorso di presentazione a Montecitorio, anche se certamente il
programma appare molto ambizioso. Si va da una netta riforma della politica,
con l'abolizione delle province, il taglio dei costi centrali e l'abolizione del finanziamento pubblico,
fino ad arrivare a misure espansive come lo stop dell'Imu sulla prima casa a
giugno e la revisione dell'Iva, oltre alla risoluzione del problema degli
esodati. Un altro e, a mio avviso fondamentale obiettivo proposto da Letta è la
rivisitazione della legge Fornero sul mercato del lavoro. C'è bisogno di lavoro,
anche con contratti a termine. L'idea è quella di favorire una forte
flessibilità in entrata, non disincentivando in toto i contratti a tempo
determinato, in modo da favorire le imprese nel breve periodo. Sul medio-lungo
si cercherà di stabilizzare maggiormente i rapporti di lavoro, con incentivi
all'assunzione di giovani e di neolaureati. Snellimento della burocrazia e
investimenti nell'edilizia scolastica gli ultimi due punti di un programma
ambizioso. L'unico neo è la non indicazione sulla copertura finanziaria per le
misure immediate di politica economica. L'indicazione, dalla nostra parte, è
sempre quella: tagli alla spesa pubblica improduttiva, vendita delle quote
nelle aziende partecipate utilizzate solo come poltronificio per i politici
locali trombati, e infine la dismissione del patrimonio pubblico non vincolato.
In 18 mesi, come indicato dal premier Letta, non sarà facile fare tutto.
Anzi, le pressioni politiche della
maggioranza saranno l'ago della bilancio per il governo. Se il governo di
responsabilità riuscirà nelle sue intenzioni, allora l'Italia potrà finalmente
uscire dallo stallo politico ed economico. Diversamente, i maggiori partiti
dovranno assumersi la responsabilità di un altro fallimento.
venerdì 19 aprile 2013
Il suicidio del Pd, un nuovo 1998
E' iniziata male ed è finita peggio,
con un revival del 1998, dalla gogna di Marini, passando per il
siluramento di Prodi, fino alle dimissioni di Bersani. Tutto è
partito con la scellerata decisione di optare come prima candidatura
al Colle Franco Marini, poi rispedito al mittente, in cambio del
governissimo con il Pdl. Successivamente, si è passati alla fase del
suicidio politico, con 101 franchi tiratori, tutti interni al Pd, che
hanno preferito frantumare un partito già a pezzi dalla batosta di
giovedì, non votando il nome di Romano Prodi. Così si può
riassumere la due giorni nera del Partito Democratico, e della sua
dirigenza. Se per molti analisti e semplici elettori, giovedì è
stata una giornata da dimenticare in fretta, ieri si è parlato di
colpo di grazia per il Pd, chiusasi con le dimissioni da segretario
di Pierluigi Bersani e della presidente del partito Rosy Bindi, che
saranno formalizzate dopo l'elezione per il Quirinale. Non poteva
essere altrimenti. Bersani, in linea con tutta la dirigenza, si è
presa inizialmente la grande responsabilità di candidare Marini,
spaccando già in un primo momento il partito fra i fedeli e
dissidenti, primi fra tutti i renziani, che hanno optato per
Chiamparino. Bocciato Marini, il Pd ha riprovato a tessere la propria
tela convergendo ieri mattina sul padre del centrosinistra, Romano
Prodi, nome acclamato all'unanimità nell'assemblea di ieri mattina e
molto favorevole per Renzi. Al pomeriggio, la Caporetto del
centrosinistra. Dalle urne dello scrutinio segreto i voti per Prodi
sono 101 in meno rispetto alle aspettative, considerando il Pd
compatto. “Uno su quattro di noi ha tradito”, questo il commento
molto diretto di Bersani. La ribattezzata carica dei 101 è tutta
interna al Partito Democratico, e non è difficile intuirne la
provenienza. L'ombra dell'area dalemiana, riscontrata anche nei voti
raccolti dal leader Maximo, si fa sempre più consistente, e la mente
non può non ritornare a quindici anni fa, quando Prodi e
l'esperienza dell'Ulivo furono affossati dall'inciucio che portò poi
D'Alema alla presidenza del consiglio. In quindici anni non è
cambiato niente. Anzi, qualcosa forse si. Ora il Pd è alle macerie,
lo sanno bene anche una parte dei giovani turchi, ed è necessario
ripartire anche sacrificando i propri beniamini di segreteria.
L'ombra di D'Alema come nome per il Colle resta, anche se paiono
molto più favorite due figure di grande profilo come Stefano Rodotà,
sostenuto dai grillini e da alcuni tiratori franchi del
centrosinistra, e Anna Maria Cancellieri, proposta da Scelta Civica,
sulla quale potrebbe convergere i voti di Pdl e Lega. Insomma,
con la maggioranza assoluta alla Camera, e quella relativa al Senato,
il Pd non andrà ad eleggere un presidente presente nella rosa dei
propri candidati. Ennesima
sconfitta per un partito che ora come non mai ha bisogno di
ripartire. A Firenze sono avvisati.
domenica 14 aprile 2013
Futuredem, speranza e futuro del Partito Democratico
Una settimana fa mi è arrivato un tweet di un amico, Mattia, conosciuto nei mesi scorso mentre seguivo a livello giornalistico e personale passione la campagna di Matteo Renzi per le primarie del centrosinistra. Mi invitava a partecipare da cronista al primo incontro nazionale di un nuovo gruppo di giovani appassionati alla politica, chi tesserato, chi simpatizzante del Pd, tutti però con la voglia di cambiare e rivoluzionare un partito fermo. Mi è sembrata una bella idea, e un'opportunità per la mia penna di poter scrivere qualcosa di nuovo da osservatore esterno, su un gruppo attivo, vivace e dinamico. E' il gruppo Futuredem, come l'hashtag che girava e che tuttora si trova su Twitter. L'idea, nata appunto sul social network, ha visto ieri a Firenze la sua benedizione iniziale, con una trentina di giovani provenienti da tutta Italia. Un numero molto esiguo rispetto ai molti più interessati al progetto, che, come già detto, punta a portare una ventata di novità all'interno della base giovanile, fin troppo chiusa, nella quale l'autoreferenzialità dei pochi mette in discussione una forte partecipazione. Tesserati, giovani democratici, simpatizzanti, semplici elettorali. Un'eterogeneità che non si ferma solo alla forma ma pure all'idea su leader e programmi. Non vogliono farsi codificare come Renzi Boys, anche se la componente renziana all'interno del gruppo è molto forte. D'altronde, inutile dirlo, Matteo Renzi incarna probabilmente l'unica vera possibilità di cambiamento per il Pd, visto anche il flop elettorale del partito targato Pierluigi Bersani. Le storie di questi giovani, specialmente liceali, universitari, ma non solo, si intrecciano con quelle dei propri coetanei, sulla quale il nostro paese scommette sempre meno. Da qui, il gruppo Futurdem, per cercare di cambiare le cose. Nel pomeriggio i ragazzi si sono divisi in tre gruppi di lavoro, discutendo su organizzazione, programmi e potenzialità da sviluppare a livello comunicativo. L'obiettivo principale di Futuredem è quello di costituire una vera e propria associazione, più liberal rispetto ai Gd. "I margini per cambiare le cose ci sono - ammettono dal gruppo - però la lotta deve essere interna. La scissione non ha senso, il Pd per vincere deve essere forte e unito, ma con struttura, idee e volti completamente rinnovati". A livello comunicativo, sarà importante per questi ragazzi, una presenza folta nei social network, cercando di coinvolgere il maggiore numero di giovani possibile, anche tramite una summer school di politica pensata per il periodo estivo. Interessanti gli spunti relativi alle piattaforme programmatiche: la parola meritocrazia rievoca quella parola merito, più volte citata da Renzi nella campagna per le primarie. Trasparenza in tutti i settori, dal settore pubblico a quello privato, fino ai contenuti e al linguaggio espressi dalla futura classe dirigente. A livello economico, infine, base per far ripartire il paese è fare di tutto perchè sia incentivato l'ingresso di nuovi talenti e l'imprenditoria giovanile. Facendola breve, questi ragazzi di Futuredem possono probabilmente rappresentare una nuova iniezione di forze fresche per il Partito Democratico del futuro.
giovedì 28 marzo 2013
40 miliardi per i pagamenti, boccata d'ossigeno per le imprese
I rimborsi vanno prima alle imprese e poi alle banche. E' questa
la priorità per il pagamento dei debiti pregressi delle pubbliche
amministrazioni. Ed è quello che ha ripetuto nel corso di queste
ultime ore il ministro dell'Economia Vittorio Grilli. Previsto un
leggero allentamento del patto di stabilità dei comuni, richiesto a
più riprese dagli enti locali, e dall'Anci, con il suo presidente
Graziano Del Rio, sindaco di Reggio Emilia. Lo sblocco della
liquidità sarà di 20 miliardi per il secondo semestre del 2013,
mentre altri venti saranno per l'intero 2014. In tutto quaranta
miliardi, una boccata d'ossigeno importante per le imprese italiane,
che stanno soffocando nella morsa dello Stato debitore/esattore e di
un credit crunch sempre più stringente. L'iniezioni di liquidità
per rimborsare i debiti prevede una maggiore spesa per interessi,
quantificabile in un aumento di 400 milioni del debito, e di una
maggiore spesa per interessi. In cambio c'è senza dubbio una forte
salvaguardia di decine di migliaia di posti di lavoro, e
un'operazione di rafforzamento di molte imprese. Il maggiore debito
comunque non farà sforare la soglia del 3% del deficit, i target
sarebbe comunque raggiunti con unn peggioramento dei conti dello
0,5%. Questo allentamento dei vincoli è certamente frutta
dell'operazione di negoziato intrapreso dal governo corrente in
Europa, che ha dato prova di responsabilità verso un'interpretazione
meno rigida delle norme comunitarie in materia di conti pubblici. Lo
sblocco dei pagamenti è una notizia molto positiva per le nostre
imprese, il quale indice di fiducia nell'ultimo mese, dal 77,6 di
febbraio al 77 di oggi, soprattutto alla tenuta del manifatturiero, a
fronte invece di un trend sempre più negativo di edilizia e
commercio al dettaglio. Bisogna però ricordare che, secondo
Bankitalia, lo stock totale di debiti verso le pubbliche
amministrazioni ammonta a 90 miliardi. Ancora troppi, anche se il
ministro Grilli in futuro non chiude all'ipotesi di nuove tranche di
liquidità per stimolare la domanda interna.
mercoledì 27 febbraio 2013
La rivincita dei mercati sugli elettori
E' bastato l'annuncio di ridiscesa in campo di Silvio Berlusconi per far tremare i mercati prima di Natale. Vista l'esito delle elezioni di due giorni fa, e l'instabilità prodotta dalle urne, era annunciato un martedì nero in Borsa e sui mercati finanziari. E così è stato. Milano oggi ha riguadagnato qualcosa, oltre l'1%, mentre ieri Piazza Affari ha perso il 4,89%, oltre 17,3 miliardi di capitalizzazione bruciati. Le perdite sono arrivate specialmente dai titoli bancari, pieni di Btp in bilancio, e addirittura è intervenuta la Consob per vietare le vendite allo scoperto su Intesa e Carige. Lo spread ha toccato i 344 punti base, mentre nella giornata di oggi è lievemente calato, a quota 336. La tensione rimane altissima: infatti siamo ben lontani da quei 200 punti di spread che indicherebbero la sicurezza dei conti e sull'elevato debito pubblico italiano nel lungo periodo. Quel traguardo a cui ci si è avvicinati a forza di sacrifici e serietà messa in campo dal governo tecnico, e delapidata dal voto degli italiani, che hanno sonoramente bocciato le politiche di austerità di Monti, votando per la maggioranza Grillo e Berlusconi e la loro avversione all'Europa delle politiche economiche restrittive imposte dalla Germania ai paesi in difficoltà. Chi presta soldi all'Italia, i nostri creditori, ha già presentato un conto che ha il sapore del salato. Sono stati infatti collocati 8,75 miliardi di Bot a 6 mesi a un tasso d'interesse dell'1,24%, in crescita rispetto allo 0,73% del mese scorso. Rendimenti in salita anche per i Btp, oggi all'asta per un massimo di 6,5 miliardi. L'aumento dello spread riduce l'efficienza del sistema Paese, perchè, per intenderci, se vogliamo prendere a prestito, dobbiamo sborsare un interesse maggiore, a scapito degli aiuti di imprese e famiglie. A livello politico per i mercati sarebbe mortale tornare nuovamente alle urne. La soluzione è certamente un governo di salute pubblica, della durata di 7-8 mesi al massimo, che garantisca stabilità, realizzando una nuova riforma elettorale, una legge sulla corruzione e sui costi alla politica e la legge sul bilancio. Poi subito alle urne, ma con facce nuove. I mercati e l'Europa non tollererebbero di nuovo un boom di Grillo, una settima candidatura di Berlusconi, e un centrosinistra attaccato alla stessa dirigenza che, per vent'anni, non ha praticamente mai vinto, se non con maggioranze risicate e poi fatte cadere.
venerdì 8 febbraio 2013
Il denaro pubblico alle banche, non solo in Italia
Se un liberale sentisse parlare di
nazionalizzazione delle banche, cercherebbe di tapparsi
immediatamente le orecchie. Eppure, la proposta avanzata per il
rilancio di Monte Paschi da Oscar Giannino alcuni giorni fa,
candidato alle elezioni ed economista, ha proprio quel suono che un
liberale come Giannino non vorrebbe mai sentire. Nazionalizzare,
entrare nel capitale della banca, ripulirla, patrimonializzarla e poi
privatizzarla. Salvarla per poi rimetterla sul mercato quando gira il
volume d'affari. L'idea non è certamente delle più strambe, anche
perchè i Monti bond non sono proprio un piccolo aiutino. 3,9
miliardi di soldi pubblici sotto forma di obbligazioni, che, nel caso
in cui la banca toscana non dovesse riuscire a restituire, metterebbe
nelle condizioni il Tesoro di entrare nel capitale sociale
dell'istituto creditizio, con una quota non proprio minuscola.
Staremo a vedere, certo. Per gli analisti, il buco creato con perdite
da oltre 700 milioni di euro, non è facilmente colmabile in breve
tempo, quindi è probabile che effettivamente il Tesoro possa entrare
con un bel gruzzolo di queste obbligazioni. Di nazionalizzazioni a
livello bancario, dall'inizio della crisi ad oggi, ne abbiamo viste
parecchie. La mente non può che tornare all'ottobre 2008, negli
Stati Uniti, quando il governo Bush approvò un piano di 250 miliardi
di dollari pubblici per l'acquisto di partecipazioni nelle nove
banche americane più grandi, fra cui le principali banche d'affari,
come Bank of America, Citigroup e Jp Morgan Chase. L'ultima,
recentissima, è il caso olandese della SNS Reaal. Quarta banca per
dimensioni dei Paesi Bassi, con un portafoglio asset di oltre 130
miliardi di euro, è entrata in forte crisi a causa delle grandi
difficoltà dei beni immobiliari, con il valore di quest'ultimi
talmente ridotto da mettere a repentaglio la soglia di solvibilità.
SNS, esposta sul settore immobiliare per quasi 10 miliardi di euro,
riceverà dal governo 2,2 miliardi, dopo gli 800 milioni ottenuti nel
2008 e oltre ad altri attuali 5 miliardi sottoforma di garanzie.
Questo è il risultato di una gestione diversa da quella di Mps.
Dietro alle difficoltà degli olandesi non si cela chiaramente la
malagestione per qualche interesse personali di qualche dirigente,
bensì la visione forse leggermente errata su un'economia un po'
troppo ingessata sull'edilizia, e dai mutui facili, dimenticandosi
forse di crescite molto più sane, come l'agricoltura e il tessuto
industriale e produttivo. Detto questo è chiaro che, a un certo
punto, in entrambi i casi, l'intervento pubblico è necessario, per
garantire stabilità nell'immediato a tante famiglie e imprese.
Magari, in giro per il mondo, qualche liberale si scaverà una fossa.
domenica 3 febbraio 2013
Il caso argentino: dal default del 2001 al rischio di espulsione dall'Fmi
Può succedere che un paese possa
essere censurato da un'istituzione di cui fa parte, sostanzialmente
per la non-trasparenza delle proprie comunicazioni? La risposta è
si, quel paese è l'Argentina e l'istituzione è il Fondo Monetario
Internazionale. In 69 anni di storia, dagli accordi di Bretton Woods
post seconda guerra mondiale non era mai successa una situazione del
genere. Per intenderci , e per chi non lo sapesse, l'Fmi è
quell'istituzione economica che lo scorso anno ha prestato 30
miliardi di dollari alla Grecia, salvandola di fatto insieme agli
aiuti europei. Ma l'Fmi è anche quella dei 21,6 miliardi di dollari
dati alla stessa Argentina nel 2001, l'anno del default. Bisogna
infatti tornare a proprio quel dicembre di oltre undici anni fa per
capire dieci anni di una ripresa economica argentina, a tratti poco
chiara e per certi versi instabile. Ma prima ancora, a oltre
vent'anni fa. Si parte infatti ad inizio negli anni '90 con una forte
lotta all'inflazione, voluta dal ministro del Tesoro Domingo Cavallo,
che nel 1991 fissò il cambio a 10mila austral equivalenti a un
dollaro (l'austral fu la prima moneta argentina a non chiamarsi
peso). Il Banco Central mantenne copiose riserve in dollari nelle
proprie casse per assicurare la convertibilità, e fa si che vi fosse
l'accettazione della moneta. Poco tempo dopo venne promulgata la “Ley
de Convertibilidad”, che reintrodusse il peso, con un tasso di
cambio fisso. Ma il debito pubblico cresceva rapidamente, di pari
passo con evasione fiscale, corruzione e spesa pubblica. Nel '99 il
presidente De la Rua, dopo aver vinto le elezioni, si trovò a fare i
conti con un paese praticamente allo sbando, già di fatto in
recessione e a forti mancanze di liquidità, e di conseguenza con
l'ormai forte sfiducia degli investitori stranieri. Arriviamo così
all'anno zero, il 2001, con il “bank runs”, tecnicamente la corsa
agli sportelli dei correntisti argentini, che constrinse il governo
argentino ad adottare il cosidetto “corralito”, ovvero il divieto
di prelevare soldi dal proprio conto, se non per piccole somme, con
la conseguente protesta popolare. Il governo, guidato ad interim da
Rodriguez Saà, a pochi giorni dal nuovo anno, dichiarò lo stato di
default per la grande parte del proprio ammontare di debito, oltre
130 miliardi di dollari. Di li a poco ci fu una forte crisi
nell'economia reale, che si riprese solo dal 2003 in poi, con
l'avvento del nuovo presidente Nestor Kirchner. A livello
finanziario, per ristrutturare il debito, si trovò un accordo con
gli investitori solo nel 2005, che prevedeva il rimpiazzo di buona
parte dei titoli oggetto di default con altri per un valore nominale
inferiore del 30%. Nel 2008 la neo presidentessa Cristina Fernandez
de Kirchner annunciò l'ulteriore negoziazione dell'ultima parte di
debito, così da poter estinguere del tutto il default nei confronti
dei privati. Oltre a questo è stato ripagato interamente l'ammontare
di debito con il Fondo Monetario. E allora dove sta il problema? Per
i 24 membri del direttivo riuniti a Washington due giorni fa che
hanno votato una dichiarazione formale di censura per lo Stato
Argentina, manca qualcosa di essenziale. Si potrebbe andare infatti
incontro a una rapida procedura d'espulsione, per l'inaccuratezza dei
propri dati economici. In soldoni, secondo l'Fmi, Buenos Aires è
inattendibile sulle proprie statistiche. L'economia argentina, con la
ripresa post default, è la diventata la seconda del Sudamerica dopo
il Brasile, ma è ancora minata dall'inflazione. Per il governo il
tasso ufficiale è al 10,8%, mentre secondo alcuni analisti quella
reale tocca il 25%. Anche il tasso di cambio non gode di grande
trasparenza; per il Banco Central il rapporto con il dollaro è di
4,9 peso per uno. Ma potrebbe essere molto più elevato, fino a sette
a uno, con una forte conseguente svalutazione. La situazione è molto
incerta. Di certo c'è solamente una data, il 29 settembre, giorno in
cui il governo argentino dovrà rendere conto davanti al Fmi dei
progressi alle basi della propria economia, a questo punto forse un
po' meno solida di quello che si pensava.
giovedì 31 gennaio 2013
Agricoltura, il futuro è qui
Ogni giorno, da ormai un mese a questa
parte, apriamo i giornali, guardiamo i tg, ascoltiamo le radio, e
naturalmente si parla di campagna elettorale. Un ritornello che si
ripeterà ancora per una ventina di giorni abbondanti, senza
esclusione di colpi, da una parte e dall'altra. Su tutti rimbalza
alle nostre orecchie la questione della tassazione, le più
esilaranti promesse sull'Imu, fino agli ultimi più recenti casi di
sprechi nei fondi regionali ai partiti e allo scandalo derivati in
Montepaschi. Tasse, corruzione, banche, finanza malata. Si parla di
tutto, ma a mio avviso ci siamo dimenticati di una cosa. Magari non
fa notizia, fa vendere meno a giornali e fa meno ascolti in
televisione, ma stiamo tralasciando un settore troppo importante
quanto dimenticato, l'agricoltura e più in generale l'intero
comparto del primario. Non che mi aspettassi niente di che
dall'offerta politica su questo campo, ma quantomeno un cenno di
vita. Non se ne parla mai, nonostante le occasioni di lavoro offerte
anche in tempo di crisi, un quota sul pil sempre crescente, e un
valore aggiunto in costante ascesa. Nonostante le mille difficoltà,
rappresentate in gran parte dal reddito degli agricoltori, sempre più
eroso a causa di costi di produzione crescenti. Occorre una nuova
politica agricola nazionale, che, in primis cerchi il giusto
equilibrio nel livello dei prezzi fra produttore e consumatore, oltre
a garantire maggiore efficienza in campo, più aggregazione fra le
imprese (la media ettari di un'impresa in Italia è fra le più basse
d'Europa) e un marketing sempre più deciso per accrescere l'export,
già molto trainante. Il settore agricolo è certamente strategico,
senza dubbio. Basta saper leggere una manciata di dati. Nel 2050 la
popolazione mondiale toccherà quota oltre nove miliardi di persone,
ovvero due in più di quelli attuali, e di conseguenza, aumenterà
fortemente la domanda di cibo. Per adeguarsi a questi ritmi,
l'agricoltura dovrà correre più forte, e adeguare la propria
produzione mondiale di circa 70% in più. I paesi più popolosi come
Cina, India, Brasile sono già partiti da alcuni anni con una decisa
politica di acquisizioni di terre a basso costo, specialmente in
Africa, al fine di far fronte alla propria crescita della popolazione
al proprio interno. Tale fenomeno, detto “Land Grabbing” si sta
diffondendo sempre di più, e se da una parte garantisce in
prospettiva grandi quantità di risorse ai maggiori paesi, dall'altra
va a scapito della popolazioni autoctone di quelle terre, costrette a
rimanere con pochi pugni di riso in mano. E' per questo che il nostro
paese non ha tempo da perdere, e deve mettersi in moto non per
contribuire a una neo forma di colonialismo, come può essere
licitamente ritenuto il Land Grabbing, ma cercando di valorizzare le
proprie terre e accrescere in quantità e qualità le proprie
produzioni. L'era dei derivati e dell'economia di carta è ormai
terminata, ora è tempo di economia reale. E l'economia reale deve
ripartire dall'agricoltura.
domenica 27 gennaio 2013
Ecopolatt aderisce a Rete Quotidiana
Ecopolatt non è più solo, ma ha dei
nuovi compagni di viaggio. Il blog da me gestito, concentrato
principalmente nel commentare l'economia, il mondo finanziario le
politiche industriali e del lavoro, oltre all'attualità politica, da
pochi giorni ha aderito al nuovo progetto chiamato “Rete
Quotidiana”. Un nuovo network d'informazione pensato e voluto da
giovani editori, direttori, giornalisti e blogger italiani, che con
difficoltà ma con grande impegno navigano ogni giorno in un settore,
quello dell'informazione, reso sempre meno limpido dai vecchi
carrozzoni dell'editoria, del giornalismo e dell'opinionismo
italiano. Portare rispetto per chi ci precede è d'obbligo, ma senza
voler ripercorrere gli errori fatti da quest'ultimi. Rete Quotidiana
non si rivolge né al lettore di destra, di sinistra e di centro, né
a quello acculturato o a quello meno acculturato; si rivolge
semplicemente al lettore, all'italiano lettore voglioso di
un'informazione trasparente e pulita, che guardi alla realtà dei
fatti con occhi sinceri senza trame o conflitti di fondo. In questo
contesto Ecopolatt, insieme al suo direttore, Lorenzo Pelliconi,
vuole apportare il suo piccolo contributo a questo nuovo progetto
fatto di giovani. La presenza di Ecopolatt in Rete Quotidiana, come
vuole appunto il nome (Eco sta per Economia, Pol per politica, att
per attualità), sarà connessa principalmente al commento di
attualità con editoriali principalmente economici. Questo settore
riveste un'importanza tale nell'informazione che spesso si tende a
intrecciarlo con la politica locale e nazionale. E' bene quindi
avere sempre un occhio indipendente e vigile, senza condizionamenti
di alcun genere. Come, del resto, è l'essenza di Rete Quotidiana.
Sono convinto che l'Italia, il nostro BelPaese, debba guardare al
futuro con un briciolo di fiducia e speranza in più. Questa fiducia
è da coltivare col sforzo di tutti, in tutti i campi, per questo sta
a una nuova generazione di direttori di testate, blogger, editori e
giornalisti promettere all'Italia delle prossime generazioni
un'informazione migliore.
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