martedì 29 ottobre 2013

La Stazione della Speranza

Si apre di prima mattina “Postcards” di James Blunt e si chiude, dopo l'intervento di Matteo Renzi, con “Ti porto via con me” di Jovanotti. Giovane, entusiasmante, smart. L'ho visto così, come da sempre, lo spazio attorno a Matteo Renzi. La Leopolda dei sorrisi, delle strette di mano, delle pacche sulle spalle. Perchè, in primis, la rassegna fiorentina del sindaco più amato d'Italia è stata luogo di buona politica e di idee per il futuro. Ma è stata l'occasione, per tutti, per rivedersi, chi dopo una settimana, chi dopo un mese, chi addirittura dopo un anno, riabbracciarsi, guardarsi negli occhi, e dire “Si, questo paese con te, con voi, si può cambiare”. E' stata la Leopolda della speranza perchè vedere così tanti giovani, da giovane, in un luogo dedicato alla politica, non mi era mai capitato, questo perchè era solo la prima volta che partecipavo alla convention di Renzi. Tutti i temi affrontati, dal mercato del lavoro all'agricoltura, dalla cultura alla scuola, fino all'idea di Stato e di Europa che ci vogliamo dare, racchiudono le speranze degli oltre quindicimila di Firenze, e rispondono ai critici che accusano Renzi di essere vuoto e non avere contenuti. Io, in verità, oltre agli argomenti e proposte programmatiche serie, ho visto anche personalità importanti e di grande competenza. Mi piacerebbe citarli dal primo all'ultimo, ma nelle righe lo spazio stringe e allora proprio perchè devo da Cosimo Pacciani a Davide Serra, da Oscar Farinetti a Graziano Del Rio, dall'umile imprenditrice agricola “che si sporca le mani” a Brunello Cucinelli, re del cashmere ed esempio dell'imprenditore sociale, attento ai bisogni dei propri lavoratori. E poi arriva Matteo Renzi, che guarda più al paese che al partito. E fa bene. Perchè la segreteria del Pd non è un fine, è un mezzo, per riformare il partito, dandogli una visione più aperta, smart, americana, per poi vincere le elezioni. E allora giocati questa partita, Matteo. Anzi, giochiamocela.
 

martedì 13 agosto 2013

Argentina sempre a rischio default. Quando le politiche monetarie espansive drogano l'economia

Risfogliando alcune letture di sabato sul Sole 24 Ore, ho cercato di capire e analizzare più a fondo un bellissimo articolo a firma di Mauro Del Corno sulla situazione dell'Argentina, che ormai da un biennio rimane appesa a un filo con un quotidiano rischio default. Gli argentini ai default ormai ci sono abituati, si fa per dire, dal momento che ne hanno collezionati sette nella propria storia, l'ultimo quello del 2001, con un micidiale crack sul debito estero e un enorme bank run che mise in ginocchio l'economia nazionale. Il paese ne è poi uscito apparentemente molto bene, con tassi di crescita di 8-9 punti percentuali, con una breve stop nel 2009 e poi una ripresa fino al 2011, quando è tornato un forte rallentamento. Il problema però è alla base. L'economia argentina non ha solide fondamenta, e a questo si aggiunge la scarsa lungimiranza della politica nazionale negli anni della ripresa. Il governo guidato da Cristina Fernandez de Kirchner, mentre l'economia galoppava, ha iniettato nel sistema politiche monetarie e fiscali espansive. Allentamento dei vincoli per i prestiti da parte delle banche commerciali, sussidi al settore privato, Banca Centrale sempre più forzata a stampare liquidità. Queste le linee guida del governo argentino, che hanno drogato in maniera quasi irreversile il sistema economico. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: inflazione a quota 25% circa, con seguente perdita di valore dell'export per via della crescita dei prezzi e una consistente e perdurante erosione di riserve di dollari. I problemi dell'economia reale si traducono anche a livello finanziario. I credit default swap argentini hanno toccato quota 2358 punti base, raddoppiando il proprio valore e doppiando pure quelli greci. Gli investitori sono avvisati. Un altro esempio, dei tanti, che indica la forte instabilità portata da politiche monetarie espansive.

giovedì 8 agosto 2013

Bank of England segue Bernanke e Abe, ma attenzione alla crescita facile

Dagli Stati Uniti al Giappone, fino all'Inghilterra. L'amore per una politica monetaria espansiva sembra aver contagiato proprio tutti. Perchè dopo le pompate di liquidità del premier giapponese Shinzo Abe e quelle del presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, ora ci si è messa, ormai da un pezzo, anche la madre patria inglese. L'annuncio di questa prosecuzione di tale politica monetaria è arrivato proprio ieri dal numero uno della Banca d'Inghilterra Mark Carney. Si manterrà una forte propensione all'espansione di liquidità fino a quando il tasso di disoccupazione nazionale non scenderà sotto la fatidica soglia del 7%. Un obiettivo che probabilmente sarà raggiunto solo nel 2016, grazie a un costo del denaro pari allo 0,5%, il minimo storico tenuto dalla Bank of England. In quasi tre anni da qui al 2016 tutto può succedere, come una leggera revisione della politica, nel caso in cui si verificassero condizioni inattese come un'inflazione superiore al 2% o instabilità finanziaria a causa di tassi d'interesse troppo bassi. Anche oltre Oceano non se la passano male. Ben Bernanke sta continuando a portare avanti una forte propensione alla liquidità, che non si fermerà fino a quando non saranno raggiunti gli obiettivi di disoccupazione e inflazione. C'è poi il Giappone, grande trascinatore sul versante di creazione di moneta, con l'Abenomics messo in campo del primo ministro Shinzo Abe. E intanto le borse, a parte qualche svarione, ringraziano. Un esempio, su tutti, Wall Street. Nel 2013, fino ad ora, la borsa americana ha guadagnato il 19%, oltre 1700 punti. Ora però la riflessione si fa più complessa. Ha senso mantenere tassi d'interesse al minimo per mesi e mesi? Lo so, sono abbastanza ripetitivo, ma ricordiamoci che fu proprio una persistente politica monetaria espansiva una delle cause principali per lo scoppio della bolla finaziaria-immobiliare del 2008, che poi a portato a tutto questo pasticcio, non ancora arginato. Wall Street dovrà pure ringraziare lo zio Ben per i facili guadagni ottenuti grazie alla sua politica, ma si deve curare da una lungimiranza messa in discussione dai fatti già successi dall'ultimo quinquennio. Senza dimenticare che l'espansione monetaria non fa parte della categoria di politiche di crescita economica “sane”.

martedì 11 giugno 2013

Abenomics: la causa per una Borsa drogata

Il Nikkei di Tokio sta recuperando, ma nelle ultime settimane l'indice giapponese se l'è vista brutta. Continui tonfi borsistici, con forti perdite che hanno ridotto i grandi guadagni degli ultimi mesi. Sembra che l'Abenomics non sia più in grado di garantire quella sicurezza che fino a poche settimane fa aveva monopolizzato il pensiero e le politiche economiche giapponesi. La politica monetaria fortemente espansiva da parte del neo premier Shinzo Abe, costituita principalmente da una forte svalutazione dello yen, ha nel suo obiettivo primario la lotta alla deflazione, con il raggiungimento di un livello d'inflazione del 2%. Una politica economica forse più appartenente a Krugman che alla tradizione keynesiana, quest'ultima più concentrata sulla spesa pubblica che sulla leva monetaria. Questa posizione, tenuta almeno inizialmente anche negli Stati Uniti, dal numero uno della Federal Reserve Ben Bernanke, sta lentamente declinando. E' vero, Bernanke continua a pompare liquidità nel circuito finanziario statunitense, ma alle prime parole del presidente della Fed su un possibile ridimensionamento, almeno in terra americana, di tale politica, le Borse sono andate a picco. L'effetto di questa politica monetaria, nel breve periodo, fa certamente respirare i mercati finanziari, dando anche grande impulso a consumi ed export. Detto questo, l'Abenomics non può essere una condizione continuativa. Bisogna infatti ricordare un particolare. Una Borsa drogata con utili e facili guadagni è pericolosa tanto quanto un indice di Borsa ferma o addirittura in perdita. La crescita in termini borsistici, per essere sana, deve essere accompagnata da un aumento esponenziale del valore dei prodotti e del Pil reale. Insomma, la borsa deve andare di pari passo con l'economia reale. Altrimenti succede come nel 1929 e nel 2008 dove espansioni a livello monetario ed enormi guadagni tendono a creare troppa euforia, che si traduce poi in bolle speculative, difficilmente controllabile. Mario Draghi, proprio poche ore fa, ha ricordato la necessità di intraprendere la strada di forti riforme economiche, che vadano a intaccare le debolezze strutturali della nostra economia, “sulla base delle misure che prese la Germania nel 2003”. Libertà d'impresa, liberalizzazioni, riforma del mercato del lavoro e riforma delle pensioni. Due di queste le abbiamo già approvate, ora però bisogna riformare fisco e burocrazia per le imprese.

martedì 30 aprile 2013

Letta ai nastri di partenza, mercati fiduciosi



L'insediamento del governo Letta e il buon risultato dell'asta dei titoli di Stato, entrambi nella giornata di ieri, hanno iniettato una buona dose di fiducia ai mercati. Milano regina d'Europa alla chiusura di ieri pomeriggio, con un +2,2% molto positivo, dovuto anche all'ottima collocazione dei titoli di Stato: il Tesoro ha piazzato tre miliardi di Btp a 5 anni con un rendimento annuo del 2,85%, in diminuzione rispetto al 3,65% della scorsa asta, e altrettanti miliardi sui 10 anni, con un tasso del 3,94%, anche questo inferiore all'asta precedente che aveva registrato un rendimento del 4,66%. La domanda ha toccato però la quota di oltre otto miliardi, per questo c'è grande fiducia anche per le aste prossime. Notizie positive anche dallo spread, che è sceso a quota 275 rispetto ai 282 punti base di venerdì. L'euforismo sui mercati finanziari è certamente anche il prodotto del nuovo governo presieduto da Enrico Letta, che proprio in serata ha ottenuto il voto di fiducia alla Camera in larga maggioranza e l'opposizione unica di Movimento 5 Stelle, Sel e Fratelli d'Italia, e con il voto al Senato in programma per oggi. Di buon auspicio anche le parole del neo presidente del consiglio Letta nel suo discorso di presentazione a Montecitorio, anche se certamente il programma appare molto ambizioso. Si va da una netta riforma della politica, con l'abolizione delle province, il taglio dei costi centrali  e l'abolizione del finanziamento pubblico, fino ad arrivare a misure espansive come lo stop dell'Imu sulla prima casa a giugno e la revisione dell'Iva, oltre alla risoluzione del problema degli esodati. Un altro e, a mio avviso fondamentale obiettivo proposto da Letta è la rivisitazione della legge Fornero sul mercato del lavoro. C'è bisogno di lavoro, anche con contratti a termine. L'idea è quella di favorire una forte flessibilità in entrata, non disincentivando in toto i contratti a tempo determinato, in modo da favorire le imprese nel breve periodo. Sul medio-lungo si cercherà di stabilizzare maggiormente i rapporti di lavoro, con incentivi all'assunzione di giovani e di neolaureati. Snellimento della burocrazia e investimenti nell'edilizia scolastica gli ultimi due punti di un programma ambizioso. L'unico neo è la non indicazione sulla copertura finanziaria per le misure immediate di politica economica. L'indicazione, dalla nostra parte, è sempre quella: tagli alla spesa pubblica improduttiva, vendita delle quote nelle aziende partecipate utilizzate solo come poltronificio per i politici locali trombati, e infine la dismissione del patrimonio pubblico non vincolato. In 18 mesi, come indicato dal premier Letta, non sarà facile fare tutto. Anzi,     le pressioni politiche della maggioranza saranno l'ago della bilancio per il governo. Se il governo di responsabilità riuscirà nelle sue intenzioni, allora l'Italia potrà finalmente uscire dallo stallo politico ed economico. Diversamente, i maggiori partiti dovranno assumersi la responsabilità di un altro fallimento.

venerdì 19 aprile 2013

Il suicidio del Pd, un nuovo 1998

E' iniziata male ed è finita peggio, con un revival del 1998, dalla gogna di Marini, passando per il siluramento di Prodi, fino alle dimissioni di Bersani. Tutto è partito con la scellerata decisione di optare come prima candidatura al Colle Franco Marini, poi rispedito al mittente, in cambio del governissimo con il Pdl. Successivamente, si è passati alla fase del suicidio politico, con 101 franchi tiratori, tutti interni al Pd, che hanno preferito frantumare un partito già a pezzi dalla batosta di giovedì, non votando il nome di Romano Prodi. Così si può riassumere la due giorni nera del Partito Democratico, e della sua dirigenza. Se per molti analisti e semplici elettori, giovedì è stata una giornata da dimenticare in fretta, ieri si è parlato di colpo di grazia per il Pd, chiusasi con le dimissioni da segretario di Pierluigi Bersani e della presidente del partito Rosy Bindi, che saranno formalizzate dopo l'elezione per il Quirinale. Non poteva essere altrimenti. Bersani, in linea con tutta la dirigenza, si è presa inizialmente la grande responsabilità di candidare Marini, spaccando già in un primo momento il partito fra i fedeli e dissidenti, primi fra tutti i renziani, che hanno optato per Chiamparino. Bocciato Marini, il Pd ha riprovato a tessere la propria tela convergendo ieri mattina sul padre del centrosinistra, Romano Prodi, nome acclamato all'unanimità nell'assemblea di ieri mattina e molto favorevole per Renzi. Al pomeriggio, la Caporetto del centrosinistra. Dalle urne dello scrutinio segreto i voti per Prodi sono 101 in meno rispetto alle aspettative, considerando il Pd compatto. “Uno su quattro di noi ha tradito”, questo il commento molto diretto di Bersani. La ribattezzata carica dei 101 è tutta interna al Partito Democratico, e non è difficile intuirne la provenienza. L'ombra dell'area dalemiana, riscontrata anche nei voti raccolti dal leader Maximo, si fa sempre più consistente, e la mente non può non ritornare a quindici anni fa, quando Prodi e l'esperienza dell'Ulivo furono affossati dall'inciucio che portò poi D'Alema alla presidenza del consiglio. In quindici anni non è cambiato niente. Anzi, qualcosa forse si. Ora il Pd è alle macerie, lo sanno bene anche una parte dei giovani turchi, ed è necessario ripartire anche sacrificando i propri beniamini di segreteria. L'ombra di D'Alema come nome per il Colle resta, anche se paiono molto più favorite due figure di grande profilo come Stefano Rodotà, sostenuto dai grillini e da alcuni tiratori franchi del centrosinistra, e Anna Maria Cancellieri, proposta da Scelta Civica, sulla quale potrebbe convergere i voti di Pdl e Lega. Insomma, con la maggioranza assoluta alla Camera, e quella relativa al Senato, il Pd non andrà ad eleggere un presidente presente nella rosa dei propri candidati. Ennesima sconfitta per un partito che ora come non mai ha bisogno di ripartire. A Firenze sono avvisati.

domenica 14 aprile 2013

Futuredem, speranza e futuro del Partito Democratico

Una settimana fa mi è arrivato un tweet di un amico, Mattia, conosciuto nei mesi scorso mentre seguivo a livello giornalistico e personale passione la campagna di Matteo Renzi per le primarie del centrosinistra. Mi invitava a partecipare da cronista al primo incontro nazionale di un nuovo gruppo di giovani appassionati alla politica, chi tesserato, chi simpatizzante del Pd, tutti però con la voglia di cambiare e rivoluzionare un partito fermo. Mi è sembrata una bella idea, e un'opportunità per la mia penna di poter scrivere qualcosa di nuovo da osservatore esterno, su un gruppo attivo, vivace e dinamico. E' il gruppo Futuredem, come l'hashtag che girava e che tuttora si trova su Twitter. L'idea, nata appunto sul social network, ha visto ieri a Firenze la sua benedizione iniziale, con una trentina di giovani provenienti da tutta Italia. Un numero molto esiguo rispetto ai molti più interessati al progetto, che, come già detto, punta a portare una ventata di novità all'interno della base giovanile, fin troppo chiusa, nella quale l'autoreferenzialità dei pochi mette in discussione una forte partecipazione. Tesserati, giovani democratici, simpatizzanti, semplici elettorali. Un'eterogeneità che non si ferma solo alla forma ma pure all'idea su leader e programmi. Non vogliono farsi codificare come Renzi Boys, anche se la componente renziana all'interno del gruppo è molto forte. D'altronde, inutile dirlo, Matteo Renzi incarna probabilmente l'unica vera possibilità di cambiamento per il Pd, visto anche il flop elettorale del partito targato Pierluigi Bersani. Le storie di questi giovani, specialmente liceali, universitari, ma non solo, si intrecciano con quelle dei  propri coetanei, sulla quale il nostro paese scommette sempre meno. Da qui, il gruppo Futurdem, per cercare di cambiare le cose. Nel pomeriggio i ragazzi si sono divisi in tre gruppi di lavoro, discutendo su organizzazione, programmi e potenzialità da sviluppare a livello comunicativo. L'obiettivo principale di Futuredem è quello di costituire una vera e propria associazione, più liberal rispetto ai Gd. "I margini per cambiare le cose ci sono - ammettono dal gruppo - però la lotta deve essere interna. La scissione non ha senso, il Pd per vincere deve essere forte e unito, ma con struttura, idee e volti completamente rinnovati". A livello comunicativo, sarà importante per questi ragazzi, una presenza folta nei social network, cercando di coinvolgere il maggiore numero di giovani possibile, anche tramite una summer school di politica pensata per il periodo estivo.  Interessanti gli spunti relativi alle piattaforme programmatiche: la parola meritocrazia rievoca quella parola merito, più volte citata da Renzi nella campagna per le primarie. Trasparenza in tutti i settori, dal settore pubblico a quello privato, fino ai contenuti e al linguaggio espressi dalla futura classe dirigente. A livello economico, infine, base per far ripartire il paese è fare di tutto perchè sia incentivato l'ingresso di nuovi talenti e l'imprenditoria giovanile. Facendola breve, questi ragazzi di Futuredem possono probabilmente rappresentare una nuova iniezione di forze fresche per il Partito Democratico del futuro.

giovedì 28 marzo 2013

40 miliardi per i pagamenti, boccata d'ossigeno per le imprese

I rimborsi vanno prima alle imprese e poi alle banche. E' questa la priorità per il pagamento dei debiti pregressi delle pubbliche amministrazioni. Ed è quello che ha ripetuto nel corso di queste ultime ore il ministro dell'Economia Vittorio Grilli. Previsto un leggero allentamento del patto di stabilità dei comuni, richiesto a più riprese dagli enti locali, e dall'Anci, con il suo presidente Graziano Del Rio, sindaco di Reggio Emilia. Lo sblocco della liquidità sarà di 20 miliardi per il secondo semestre del 2013, mentre altri venti saranno per l'intero 2014. In tutto quaranta miliardi, una boccata d'ossigeno importante per le imprese italiane, che stanno soffocando nella morsa dello Stato debitore/esattore e di un credit crunch sempre più stringente. L'iniezioni di liquidità per rimborsare i debiti prevede una maggiore spesa per interessi, quantificabile in un aumento di 400 milioni del debito, e di una maggiore spesa per interessi. In cambio c'è senza dubbio una forte salvaguardia di decine di migliaia di posti di lavoro, e un'operazione di rafforzamento di molte imprese. Il maggiore debito comunque non farà sforare la soglia del 3% del deficit, i target sarebbe comunque raggiunti con unn peggioramento dei conti dello 0,5%. Questo allentamento dei vincoli è certamente frutta dell'operazione di negoziato intrapreso dal governo corrente in Europa, che ha dato prova di responsabilità verso un'interpretazione meno rigida delle norme comunitarie in materia di conti pubblici. Lo sblocco dei pagamenti è una notizia molto positiva per le nostre imprese, il quale indice di fiducia nell'ultimo mese, dal 77,6 di febbraio al 77 di oggi, soprattutto alla tenuta del manifatturiero, a fronte invece di un trend sempre più negativo di edilizia e commercio al dettaglio. Bisogna però ricordare che, secondo Bankitalia, lo stock totale di debiti verso le pubbliche amministrazioni ammonta a 90 miliardi. Ancora troppi, anche se il ministro Grilli in futuro non chiude all'ipotesi di nuove tranche di liquidità per stimolare la domanda interna.



mercoledì 27 febbraio 2013

La rivincita dei mercati sugli elettori

E' bastato l'annuncio di ridiscesa in campo di Silvio Berlusconi per far tremare i mercati prima di Natale. Vista l'esito delle elezioni di due giorni fa, e l'instabilità prodotta dalle urne, era annunciato un martedì nero in Borsa e sui mercati finanziari. E così è stato. Milano oggi ha riguadagnato qualcosa, oltre l'1%, mentre ieri Piazza Affari ha perso il 4,89%, oltre 17,3 miliardi di capitalizzazione bruciati. Le perdite sono arrivate specialmente dai titoli bancari, pieni di Btp in bilancio, e addirittura è intervenuta la Consob per vietare le vendite allo scoperto su Intesa e Carige. Lo spread ha toccato i 344 punti base, mentre nella giornata di oggi è lievemente calato, a quota 336. La tensione rimane altissima: infatti siamo ben lontani da quei 200 punti di spread che indicherebbero la sicurezza dei conti e sull'elevato debito pubblico italiano nel lungo periodo. Quel traguardo a cui ci si è avvicinati a forza di sacrifici e serietà messa in campo dal governo tecnico, e delapidata dal voto degli italiani, che hanno sonoramente bocciato le politiche di austerità di Monti, votando per la maggioranza Grillo e Berlusconi e la loro avversione all'Europa delle politiche economiche restrittive imposte dalla Germania ai paesi in difficoltà. Chi presta soldi all'Italia, i nostri creditori, ha già presentato un conto che ha il sapore del salato. Sono stati infatti collocati 8,75 miliardi di Bot a 6 mesi a un tasso d'interesse dell'1,24%, in crescita rispetto allo 0,73% del mese scorso. Rendimenti in salita anche per i Btp, oggi all'asta per un massimo di 6,5 miliardi. L'aumento dello spread riduce l'efficienza del sistema Paese, perchè, per intenderci, se vogliamo prendere a prestito, dobbiamo sborsare un interesse maggiore, a scapito degli aiuti di imprese e famiglie. A livello politico per i mercati sarebbe mortale tornare nuovamente alle urne. La soluzione è certamente un governo di salute pubblica, della durata di 7-8 mesi al massimo, che garantisca stabilità, realizzando una nuova riforma elettorale, una legge sulla corruzione e sui costi alla politica e la legge sul bilancio. Poi subito alle urne, ma con facce nuove. I mercati e l'Europa non tollererebbero di nuovo un boom di Grillo, una settima candidatura di Berlusconi, e un centrosinistra attaccato alla stessa dirigenza che, per vent'anni, non ha praticamente mai vinto, se non con maggioranze risicate e poi fatte cadere.

venerdì 8 febbraio 2013

Il denaro pubblico alle banche, non solo in Italia

Se un liberale sentisse parlare di nazionalizzazione delle banche, cercherebbe di tapparsi immediatamente le orecchie. Eppure, la proposta avanzata per il rilancio di Monte Paschi da Oscar Giannino alcuni giorni fa, candidato alle elezioni ed economista, ha proprio quel suono che un liberale come Giannino non vorrebbe mai sentire. Nazionalizzare, entrare nel capitale della banca, ripulirla, patrimonializzarla e poi privatizzarla. Salvarla per poi rimetterla sul mercato quando gira il volume d'affari. L'idea non è certamente delle più strambe, anche perchè i Monti bond non sono proprio un piccolo aiutino. 3,9 miliardi di soldi pubblici sotto forma di obbligazioni, che, nel caso in cui la banca toscana non dovesse riuscire a restituire, metterebbe nelle condizioni il Tesoro di entrare nel capitale sociale dell'istituto creditizio, con una quota non proprio minuscola. Staremo a vedere, certo. Per gli analisti, il buco creato con perdite da oltre 700 milioni di euro, non è facilmente colmabile in breve tempo, quindi è probabile che effettivamente il Tesoro possa entrare con un bel gruzzolo di queste obbligazioni. Di nazionalizzazioni a livello bancario, dall'inizio della crisi ad oggi, ne abbiamo viste parecchie. La mente non può che tornare all'ottobre 2008, negli Stati Uniti, quando il governo Bush approvò un piano di 250 miliardi di dollari pubblici per l'acquisto di partecipazioni nelle nove banche americane più grandi, fra cui le principali banche d'affari, come Bank of America, Citigroup e Jp Morgan Chase. L'ultima, recentissima, è il caso olandese della SNS Reaal. Quarta banca per dimensioni dei Paesi Bassi, con un portafoglio asset di oltre 130 miliardi di euro, è entrata in forte crisi a causa delle grandi difficoltà dei beni immobiliari, con il valore di quest'ultimi talmente ridotto da mettere a repentaglio la soglia di solvibilità. SNS, esposta sul settore immobiliare per quasi 10 miliardi di euro, riceverà dal governo 2,2 miliardi, dopo gli 800 milioni ottenuti nel 2008 e oltre ad altri attuali 5 miliardi sottoforma di garanzie. Questo è il risultato di una gestione diversa da quella di Mps. Dietro alle difficoltà degli olandesi non si cela chiaramente la malagestione per qualche interesse personali di qualche dirigente, bensì la visione forse leggermente errata su un'economia un po' troppo ingessata sull'edilizia, e dai mutui facili, dimenticandosi forse di crescite molto più sane, come l'agricoltura e il tessuto industriale e produttivo. Detto questo è chiaro che, a un certo punto, in entrambi i casi, l'intervento pubblico è necessario, per garantire stabilità nell'immediato a tante famiglie e imprese. Magari, in giro per il mondo, qualche liberale si scaverà una fossa.

domenica 3 febbraio 2013

Il caso argentino: dal default del 2001 al rischio di espulsione dall'Fmi

Può succedere che un paese possa essere censurato da un'istituzione di cui fa parte, sostanzialmente per la non-trasparenza delle proprie comunicazioni? La risposta è si, quel paese è l'Argentina e l'istituzione è il Fondo Monetario Internazionale. In 69 anni di storia, dagli accordi di Bretton Woods post seconda guerra mondiale non era mai successa una situazione del genere. Per intenderci , e per chi non lo sapesse, l'Fmi è quell'istituzione economica che lo scorso anno ha prestato 30 miliardi di dollari alla Grecia, salvandola di fatto insieme agli aiuti europei. Ma l'Fmi è anche quella dei 21,6 miliardi di dollari dati alla stessa Argentina nel 2001, l'anno del default. Bisogna infatti tornare a proprio quel dicembre di oltre undici anni fa per capire dieci anni di una ripresa economica argentina, a tratti poco chiara e per certi versi instabile. Ma prima ancora, a oltre vent'anni fa. Si parte infatti ad inizio negli anni '90 con una forte lotta all'inflazione, voluta dal ministro del Tesoro Domingo Cavallo, che nel 1991 fissò il cambio a 10mila austral equivalenti a un dollaro (l'austral fu la prima moneta argentina a non chiamarsi peso). Il Banco Central mantenne copiose riserve in dollari nelle proprie casse per assicurare la convertibilità, e fa si che vi fosse l'accettazione della moneta. Poco tempo dopo venne promulgata la “Ley de Convertibilidad”, che reintrodusse il peso, con un tasso di cambio fisso. Ma il debito pubblico cresceva rapidamente, di pari passo con evasione fiscale, corruzione e spesa pubblica. Nel '99 il presidente De la Rua, dopo aver vinto le elezioni, si trovò a fare i conti con un paese praticamente allo sbando, già di fatto in recessione e a forti mancanze di liquidità, e di conseguenza con l'ormai forte sfiducia degli investitori stranieri. Arriviamo così all'anno zero, il 2001, con il “bank runs”, tecnicamente la corsa agli sportelli dei correntisti argentini, che constrinse il governo argentino ad adottare il cosidetto “corralito”, ovvero il divieto di prelevare soldi dal proprio conto, se non per piccole somme, con la conseguente protesta popolare. Il governo, guidato ad interim da Rodriguez Saà, a pochi giorni dal nuovo anno, dichiarò lo stato di default per la grande parte del proprio ammontare di debito, oltre 130 miliardi di dollari. Di li a poco ci fu una forte crisi nell'economia reale, che si riprese solo dal 2003 in poi, con l'avvento del nuovo presidente Nestor Kirchner. A livello finanziario, per ristrutturare il debito, si trovò un accordo con gli investitori solo nel 2005, che prevedeva il rimpiazzo di buona parte dei titoli oggetto di default con altri per un valore nominale inferiore del 30%. Nel 2008 la neo presidentessa Cristina Fernandez de Kirchner annunciò l'ulteriore negoziazione dell'ultima parte di debito, così da poter estinguere del tutto il default nei confronti dei privati. Oltre a questo è stato ripagato interamente l'ammontare di debito con il Fondo Monetario. E allora dove sta il problema? Per i 24 membri del direttivo riuniti a Washington due giorni fa che hanno votato una dichiarazione formale di censura per lo Stato Argentina, manca qualcosa di essenziale. Si potrebbe andare infatti incontro a una rapida procedura d'espulsione, per l'inaccuratezza dei propri dati economici. In soldoni, secondo l'Fmi, Buenos Aires è inattendibile sulle proprie statistiche. L'economia argentina, con la ripresa post default, è la diventata la seconda del Sudamerica dopo il Brasile, ma è ancora minata dall'inflazione. Per il governo il tasso ufficiale è al 10,8%, mentre secondo alcuni analisti quella reale tocca il 25%. Anche il tasso di cambio non gode di grande trasparenza; per il Banco Central il rapporto con il dollaro è di 4,9 peso per uno. Ma potrebbe essere molto più elevato, fino a sette a uno, con una forte conseguente svalutazione. La situazione è molto incerta. Di certo c'è solamente una data, il 29 settembre, giorno in cui il governo argentino dovrà rendere conto davanti al Fmi dei progressi alle basi della propria economia, a questo punto forse un po' meno solida di quello che si pensava.

giovedì 31 gennaio 2013

Agricoltura, il futuro è qui

Ogni giorno, da ormai un mese a questa parte, apriamo i giornali, guardiamo i tg, ascoltiamo le radio, e naturalmente si parla di campagna elettorale. Un ritornello che si ripeterà ancora per una ventina di giorni abbondanti, senza esclusione di colpi, da una parte e dall'altra. Su tutti rimbalza alle nostre orecchie la questione della tassazione, le più esilaranti promesse sull'Imu, fino agli ultimi più recenti casi di sprechi nei fondi regionali ai partiti e allo scandalo derivati in Montepaschi. Tasse, corruzione, banche, finanza malata. Si parla di tutto, ma a mio avviso ci siamo dimenticati di una cosa. Magari non fa notizia, fa vendere meno a giornali e fa meno ascolti in televisione, ma stiamo tralasciando un settore troppo importante quanto dimenticato, l'agricoltura e più in generale l'intero comparto del primario. Non che mi aspettassi niente di che dall'offerta politica su questo campo, ma quantomeno un cenno di vita. Non se ne parla mai, nonostante le occasioni di lavoro offerte anche in tempo di crisi, un quota sul pil sempre crescente, e un valore aggiunto in costante ascesa. Nonostante le mille difficoltà, rappresentate in gran parte dal reddito degli agricoltori, sempre più eroso a causa di costi di produzione crescenti. Occorre una nuova politica agricola nazionale, che, in primis cerchi il giusto equilibrio nel livello dei prezzi fra produttore e consumatore, oltre a garantire maggiore efficienza in campo, più aggregazione fra le imprese (la media ettari di un'impresa in Italia è fra le più basse d'Europa) e un marketing sempre più deciso per accrescere l'export, già molto trainante. Il settore agricolo è certamente strategico, senza dubbio. Basta saper leggere una manciata di dati. Nel 2050 la popolazione mondiale toccherà quota oltre nove miliardi di persone, ovvero due in più di quelli attuali, e di conseguenza, aumenterà fortemente la domanda di cibo. Per adeguarsi a questi ritmi, l'agricoltura dovrà correre più forte, e adeguare la propria produzione mondiale di circa 70% in più. I paesi più popolosi come Cina, India, Brasile sono già partiti da alcuni anni con una decisa politica di acquisizioni di terre a basso costo, specialmente in Africa, al fine di far fronte alla propria crescita della popolazione al proprio interno. Tale fenomeno, detto “Land Grabbing” si sta diffondendo sempre di più, e se da una parte garantisce in prospettiva grandi quantità di risorse ai maggiori paesi, dall'altra va a scapito della popolazioni autoctone di quelle terre, costrette a rimanere con pochi pugni di riso in mano. E' per questo che il nostro paese non ha tempo da perdere, e deve mettersi in moto non per contribuire a una neo forma di colonialismo, come può essere licitamente ritenuto il Land Grabbing, ma cercando di valorizzare le proprie terre e accrescere in quantità e qualità le proprie produzioni. L'era dei derivati e dell'economia di carta è ormai terminata, ora è tempo di economia reale. E l'economia reale deve ripartire dall'agricoltura.

domenica 27 gennaio 2013

Ecopolatt aderisce a Rete Quotidiana

Ecopolatt non è più solo, ma ha dei nuovi compagni di viaggio. Il blog da me gestito, concentrato principalmente nel commentare l'economia, il mondo finanziario le politiche industriali e del lavoro, oltre all'attualità politica, da pochi giorni ha aderito al nuovo progetto chiamato “Rete Quotidiana”. Un nuovo network d'informazione pensato e voluto da giovani editori, direttori, giornalisti e blogger italiani, che con difficoltà ma con grande impegno navigano ogni giorno in un settore, quello dell'informazione, reso sempre meno limpido dai vecchi carrozzoni dell'editoria, del giornalismo e dell'opinionismo italiano. Portare rispetto per chi ci precede è d'obbligo, ma senza voler ripercorrere gli errori fatti da quest'ultimi. Rete Quotidiana non si rivolge né al lettore di destra, di sinistra e di centro, né a quello acculturato o a quello meno acculturato; si rivolge semplicemente al lettore, all'italiano lettore voglioso di un'informazione trasparente e pulita, che guardi alla realtà dei fatti con occhi sinceri senza trame o conflitti di fondo. In questo contesto Ecopolatt, insieme al suo direttore, Lorenzo Pelliconi, vuole apportare il suo piccolo contributo a questo nuovo progetto fatto di giovani. La presenza di Ecopolatt in Rete Quotidiana, come vuole appunto il nome (Eco sta per Economia, Pol per politica, att per attualità), sarà connessa principalmente al commento di attualità con editoriali principalmente economici. Questo settore riveste un'importanza tale nell'informazione che spesso si tende a intrecciarlo con la politica locale e nazionale. E' bene quindi avere sempre un occhio indipendente e vigile, senza condizionamenti di alcun genere. Come, del resto, è l'essenza di Rete Quotidiana. Sono convinto che l'Italia, il nostro BelPaese, debba guardare al futuro con un briciolo di fiducia e speranza in più. Questa fiducia è da coltivare col sforzo di tutti, in tutti i campi, per questo sta a una nuova generazione di direttori di testate, blogger, editori e giornalisti promettere all'Italia delle prossime generazioni un'informazione migliore.