venerdì 19 aprile 2013

Il suicidio del Pd, un nuovo 1998

E' iniziata male ed è finita peggio, con un revival del 1998, dalla gogna di Marini, passando per il siluramento di Prodi, fino alle dimissioni di Bersani. Tutto è partito con la scellerata decisione di optare come prima candidatura al Colle Franco Marini, poi rispedito al mittente, in cambio del governissimo con il Pdl. Successivamente, si è passati alla fase del suicidio politico, con 101 franchi tiratori, tutti interni al Pd, che hanno preferito frantumare un partito già a pezzi dalla batosta di giovedì, non votando il nome di Romano Prodi. Così si può riassumere la due giorni nera del Partito Democratico, e della sua dirigenza. Se per molti analisti e semplici elettori, giovedì è stata una giornata da dimenticare in fretta, ieri si è parlato di colpo di grazia per il Pd, chiusasi con le dimissioni da segretario di Pierluigi Bersani e della presidente del partito Rosy Bindi, che saranno formalizzate dopo l'elezione per il Quirinale. Non poteva essere altrimenti. Bersani, in linea con tutta la dirigenza, si è presa inizialmente la grande responsabilità di candidare Marini, spaccando già in un primo momento il partito fra i fedeli e dissidenti, primi fra tutti i renziani, che hanno optato per Chiamparino. Bocciato Marini, il Pd ha riprovato a tessere la propria tela convergendo ieri mattina sul padre del centrosinistra, Romano Prodi, nome acclamato all'unanimità nell'assemblea di ieri mattina e molto favorevole per Renzi. Al pomeriggio, la Caporetto del centrosinistra. Dalle urne dello scrutinio segreto i voti per Prodi sono 101 in meno rispetto alle aspettative, considerando il Pd compatto. “Uno su quattro di noi ha tradito”, questo il commento molto diretto di Bersani. La ribattezzata carica dei 101 è tutta interna al Partito Democratico, e non è difficile intuirne la provenienza. L'ombra dell'area dalemiana, riscontrata anche nei voti raccolti dal leader Maximo, si fa sempre più consistente, e la mente non può non ritornare a quindici anni fa, quando Prodi e l'esperienza dell'Ulivo furono affossati dall'inciucio che portò poi D'Alema alla presidenza del consiglio. In quindici anni non è cambiato niente. Anzi, qualcosa forse si. Ora il Pd è alle macerie, lo sanno bene anche una parte dei giovani turchi, ed è necessario ripartire anche sacrificando i propri beniamini di segreteria. L'ombra di D'Alema come nome per il Colle resta, anche se paiono molto più favorite due figure di grande profilo come Stefano Rodotà, sostenuto dai grillini e da alcuni tiratori franchi del centrosinistra, e Anna Maria Cancellieri, proposta da Scelta Civica, sulla quale potrebbe convergere i voti di Pdl e Lega. Insomma, con la maggioranza assoluta alla Camera, e quella relativa al Senato, il Pd non andrà ad eleggere un presidente presente nella rosa dei propri candidati. Ennesima sconfitta per un partito che ora come non mai ha bisogno di ripartire. A Firenze sono avvisati.

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