E' iniziata male ed è finita peggio,
con un revival del 1998, dalla gogna di Marini, passando per il
siluramento di Prodi, fino alle dimissioni di Bersani. Tutto è
partito con la scellerata decisione di optare come prima candidatura
al Colle Franco Marini, poi rispedito al mittente, in cambio del
governissimo con il Pdl. Successivamente, si è passati alla fase del
suicidio politico, con 101 franchi tiratori, tutti interni al Pd, che
hanno preferito frantumare un partito già a pezzi dalla batosta di
giovedì, non votando il nome di Romano Prodi. Così si può
riassumere la due giorni nera del Partito Democratico, e della sua
dirigenza. Se per molti analisti e semplici elettori, giovedì è
stata una giornata da dimenticare in fretta, ieri si è parlato di
colpo di grazia per il Pd, chiusasi con le dimissioni da segretario
di Pierluigi Bersani e della presidente del partito Rosy Bindi, che
saranno formalizzate dopo l'elezione per il Quirinale. Non poteva
essere altrimenti. Bersani, in linea con tutta la dirigenza, si è
presa inizialmente la grande responsabilità di candidare Marini,
spaccando già in un primo momento il partito fra i fedeli e
dissidenti, primi fra tutti i renziani, che hanno optato per
Chiamparino. Bocciato Marini, il Pd ha riprovato a tessere la propria
tela convergendo ieri mattina sul padre del centrosinistra, Romano
Prodi, nome acclamato all'unanimità nell'assemblea di ieri mattina e
molto favorevole per Renzi. Al pomeriggio, la Caporetto del
centrosinistra. Dalle urne dello scrutinio segreto i voti per Prodi
sono 101 in meno rispetto alle aspettative, considerando il Pd
compatto. “Uno su quattro di noi ha tradito”, questo il commento
molto diretto di Bersani. La ribattezzata carica dei 101 è tutta
interna al Partito Democratico, e non è difficile intuirne la
provenienza. L'ombra dell'area dalemiana, riscontrata anche nei voti
raccolti dal leader Maximo, si fa sempre più consistente, e la mente
non può non ritornare a quindici anni fa, quando Prodi e
l'esperienza dell'Ulivo furono affossati dall'inciucio che portò poi
D'Alema alla presidenza del consiglio. In quindici anni non è
cambiato niente. Anzi, qualcosa forse si. Ora il Pd è alle macerie,
lo sanno bene anche una parte dei giovani turchi, ed è necessario
ripartire anche sacrificando i propri beniamini di segreteria.
L'ombra di D'Alema come nome per il Colle resta, anche se paiono
molto più favorite due figure di grande profilo come Stefano Rodotà,
sostenuto dai grillini e da alcuni tiratori franchi del
centrosinistra, e Anna Maria Cancellieri, proposta da Scelta Civica,
sulla quale potrebbe convergere i voti di Pdl e Lega. Insomma,
con la maggioranza assoluta alla Camera, e quella relativa al Senato,
il Pd non andrà ad eleggere un presidente presente nella rosa dei
propri candidati. Ennesima
sconfitta per un partito che ora come non mai ha bisogno di
ripartire. A Firenze sono avvisati.
Nessun commento:
Posta un commento