Risfogliando
alcune letture di sabato sul Sole 24 Ore, ho cercato di capire e
analizzare più a fondo un bellissimo articolo a firma di Mauro Del
Corno sulla situazione dell'Argentina, che ormai da un biennio rimane
appesa a un filo con un quotidiano rischio default. Gli argentini ai
default ormai ci sono abituati, si fa per dire, dal momento che ne
hanno collezionati sette nella propria storia, l'ultimo quello del
2001, con un micidiale crack sul debito estero e un enorme bank
run che mise in ginocchio
l'economia nazionale. Il paese ne è poi uscito apparentemente molto
bene, con tassi di crescita di 8-9 punti percentuali, con
una breve stop nel 2009 e poi una ripresa fino al 2011, quando è
tornato un forte rallentamento. Il problema però è alla base.
L'economia argentina non ha solide fondamenta, e a questo si aggiunge
la scarsa lungimiranza della politica nazionale negli anni della
ripresa. Il governo guidato da Cristina Fernandez de Kirchner, mentre
l'economia galoppava, ha iniettato nel sistema politiche monetarie e
fiscali espansive. Allentamento dei vincoli per i prestiti da parte
delle banche commerciali, sussidi al settore privato, Banca Centrale
sempre più forzata a stampare liquidità. Queste le linee guida del
governo argentino, che hanno drogato in maniera quasi irreversile il
sistema economico. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti:
inflazione a quota 25% circa, con seguente perdita di valore
dell'export per via della crescita dei prezzi e una consistente e
perdurante erosione di riserve di dollari. I problemi dell'economia
reale si traducono anche a livello finanziario. I credit default swap
argentini hanno toccato quota 2358 punti base, raddoppiando il
proprio valore e doppiando pure quelli greci. Gli investitori sono
avvisati. Un altro esempio, dei tanti, che indica la forte
instabilità portata da politiche monetarie espansive.
martedì 13 agosto 2013
giovedì 8 agosto 2013
Bank of England segue Bernanke e Abe, ma attenzione alla crescita facile
Dagli Stati Uniti al
Giappone, fino all'Inghilterra. L'amore per una politica monetaria
espansiva sembra aver contagiato proprio tutti. Perchè dopo le
pompate di liquidità del premier giapponese Shinzo Abe e quelle del
presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, ora ci si è messa,
ormai da un pezzo, anche la madre patria inglese. L'annuncio di
questa prosecuzione di tale politica monetaria è arrivato proprio
ieri dal numero uno della Banca d'Inghilterra Mark Carney. Si
manterrà una forte propensione all'espansione di liquidità fino a
quando il tasso di disoccupazione nazionale non scenderà sotto la
fatidica soglia del 7%. Un obiettivo che probabilmente sarà
raggiunto solo nel 2016, grazie a un costo del denaro pari allo 0,5%,
il minimo storico tenuto dalla Bank of England. In quasi tre anni da
qui al 2016 tutto può succedere, come una leggera revisione della
politica, nel caso in cui si verificassero condizioni inattese come
un'inflazione superiore al 2% o instabilità finanziaria a causa di
tassi d'interesse troppo bassi. Anche oltre Oceano non se la passano
male. Ben Bernanke sta continuando a portare avanti una forte
propensione alla liquidità, che non si fermerà fino a quando non
saranno raggiunti gli obiettivi di disoccupazione e inflazione. C'è
poi il Giappone, grande trascinatore sul versante di creazione di
moneta, con l'Abenomics messo in campo del primo ministro Shinzo Abe.
E intanto le borse, a parte qualche svarione, ringraziano. Un
esempio, su tutti, Wall Street. Nel 2013, fino ad ora, la borsa
americana ha guadagnato il 19%, oltre 1700 punti. Ora però la
riflessione si fa più complessa. Ha senso mantenere tassi
d'interesse al minimo per mesi e mesi? Lo so, sono abbastanza
ripetitivo, ma ricordiamoci che fu proprio una persistente politica
monetaria espansiva una delle cause principali per lo scoppio della
bolla finaziaria-immobiliare del 2008, che poi a portato a tutto
questo pasticcio, non ancora arginato. Wall Street dovrà pure
ringraziare lo zio Ben per i facili guadagni ottenuti grazie alla sua
politica, ma si deve curare da una lungimiranza messa in discussione
dai fatti già successi dall'ultimo quinquennio. Senza dimenticare
che l'espansione monetaria non fa parte della categoria di politiche
di crescita economica “sane”.
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