domenica 3 febbraio 2013

Il caso argentino: dal default del 2001 al rischio di espulsione dall'Fmi

Può succedere che un paese possa essere censurato da un'istituzione di cui fa parte, sostanzialmente per la non-trasparenza delle proprie comunicazioni? La risposta è si, quel paese è l'Argentina e l'istituzione è il Fondo Monetario Internazionale. In 69 anni di storia, dagli accordi di Bretton Woods post seconda guerra mondiale non era mai successa una situazione del genere. Per intenderci , e per chi non lo sapesse, l'Fmi è quell'istituzione economica che lo scorso anno ha prestato 30 miliardi di dollari alla Grecia, salvandola di fatto insieme agli aiuti europei. Ma l'Fmi è anche quella dei 21,6 miliardi di dollari dati alla stessa Argentina nel 2001, l'anno del default. Bisogna infatti tornare a proprio quel dicembre di oltre undici anni fa per capire dieci anni di una ripresa economica argentina, a tratti poco chiara e per certi versi instabile. Ma prima ancora, a oltre vent'anni fa. Si parte infatti ad inizio negli anni '90 con una forte lotta all'inflazione, voluta dal ministro del Tesoro Domingo Cavallo, che nel 1991 fissò il cambio a 10mila austral equivalenti a un dollaro (l'austral fu la prima moneta argentina a non chiamarsi peso). Il Banco Central mantenne copiose riserve in dollari nelle proprie casse per assicurare la convertibilità, e fa si che vi fosse l'accettazione della moneta. Poco tempo dopo venne promulgata la “Ley de Convertibilidad”, che reintrodusse il peso, con un tasso di cambio fisso. Ma il debito pubblico cresceva rapidamente, di pari passo con evasione fiscale, corruzione e spesa pubblica. Nel '99 il presidente De la Rua, dopo aver vinto le elezioni, si trovò a fare i conti con un paese praticamente allo sbando, già di fatto in recessione e a forti mancanze di liquidità, e di conseguenza con l'ormai forte sfiducia degli investitori stranieri. Arriviamo così all'anno zero, il 2001, con il “bank runs”, tecnicamente la corsa agli sportelli dei correntisti argentini, che constrinse il governo argentino ad adottare il cosidetto “corralito”, ovvero il divieto di prelevare soldi dal proprio conto, se non per piccole somme, con la conseguente protesta popolare. Il governo, guidato ad interim da Rodriguez Saà, a pochi giorni dal nuovo anno, dichiarò lo stato di default per la grande parte del proprio ammontare di debito, oltre 130 miliardi di dollari. Di li a poco ci fu una forte crisi nell'economia reale, che si riprese solo dal 2003 in poi, con l'avvento del nuovo presidente Nestor Kirchner. A livello finanziario, per ristrutturare il debito, si trovò un accordo con gli investitori solo nel 2005, che prevedeva il rimpiazzo di buona parte dei titoli oggetto di default con altri per un valore nominale inferiore del 30%. Nel 2008 la neo presidentessa Cristina Fernandez de Kirchner annunciò l'ulteriore negoziazione dell'ultima parte di debito, così da poter estinguere del tutto il default nei confronti dei privati. Oltre a questo è stato ripagato interamente l'ammontare di debito con il Fondo Monetario. E allora dove sta il problema? Per i 24 membri del direttivo riuniti a Washington due giorni fa che hanno votato una dichiarazione formale di censura per lo Stato Argentina, manca qualcosa di essenziale. Si potrebbe andare infatti incontro a una rapida procedura d'espulsione, per l'inaccuratezza dei propri dati economici. In soldoni, secondo l'Fmi, Buenos Aires è inattendibile sulle proprie statistiche. L'economia argentina, con la ripresa post default, è la diventata la seconda del Sudamerica dopo il Brasile, ma è ancora minata dall'inflazione. Per il governo il tasso ufficiale è al 10,8%, mentre secondo alcuni analisti quella reale tocca il 25%. Anche il tasso di cambio non gode di grande trasparenza; per il Banco Central il rapporto con il dollaro è di 4,9 peso per uno. Ma potrebbe essere molto più elevato, fino a sette a uno, con una forte conseguente svalutazione. La situazione è molto incerta. Di certo c'è solamente una data, il 29 settembre, giorno in cui il governo argentino dovrà rendere conto davanti al Fmi dei progressi alle basi della propria economia, a questo punto forse un po' meno solida di quello che si pensava.

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