martedì 29 ottobre 2013

La Stazione della Speranza

Si apre di prima mattina “Postcards” di James Blunt e si chiude, dopo l'intervento di Matteo Renzi, con “Ti porto via con me” di Jovanotti. Giovane, entusiasmante, smart. L'ho visto così, come da sempre, lo spazio attorno a Matteo Renzi. La Leopolda dei sorrisi, delle strette di mano, delle pacche sulle spalle. Perchè, in primis, la rassegna fiorentina del sindaco più amato d'Italia è stata luogo di buona politica e di idee per il futuro. Ma è stata l'occasione, per tutti, per rivedersi, chi dopo una settimana, chi dopo un mese, chi addirittura dopo un anno, riabbracciarsi, guardarsi negli occhi, e dire “Si, questo paese con te, con voi, si può cambiare”. E' stata la Leopolda della speranza perchè vedere così tanti giovani, da giovane, in un luogo dedicato alla politica, non mi era mai capitato, questo perchè era solo la prima volta che partecipavo alla convention di Renzi. Tutti i temi affrontati, dal mercato del lavoro all'agricoltura, dalla cultura alla scuola, fino all'idea di Stato e di Europa che ci vogliamo dare, racchiudono le speranze degli oltre quindicimila di Firenze, e rispondono ai critici che accusano Renzi di essere vuoto e non avere contenuti. Io, in verità, oltre agli argomenti e proposte programmatiche serie, ho visto anche personalità importanti e di grande competenza. Mi piacerebbe citarli dal primo all'ultimo, ma nelle righe lo spazio stringe e allora proprio perchè devo da Cosimo Pacciani a Davide Serra, da Oscar Farinetti a Graziano Del Rio, dall'umile imprenditrice agricola “che si sporca le mani” a Brunello Cucinelli, re del cashmere ed esempio dell'imprenditore sociale, attento ai bisogni dei propri lavoratori. E poi arriva Matteo Renzi, che guarda più al paese che al partito. E fa bene. Perchè la segreteria del Pd non è un fine, è un mezzo, per riformare il partito, dandogli una visione più aperta, smart, americana, per poi vincere le elezioni. E allora giocati questa partita, Matteo. Anzi, giochiamocela.
 

martedì 13 agosto 2013

Argentina sempre a rischio default. Quando le politiche monetarie espansive drogano l'economia

Risfogliando alcune letture di sabato sul Sole 24 Ore, ho cercato di capire e analizzare più a fondo un bellissimo articolo a firma di Mauro Del Corno sulla situazione dell'Argentina, che ormai da un biennio rimane appesa a un filo con un quotidiano rischio default. Gli argentini ai default ormai ci sono abituati, si fa per dire, dal momento che ne hanno collezionati sette nella propria storia, l'ultimo quello del 2001, con un micidiale crack sul debito estero e un enorme bank run che mise in ginocchio l'economia nazionale. Il paese ne è poi uscito apparentemente molto bene, con tassi di crescita di 8-9 punti percentuali, con una breve stop nel 2009 e poi una ripresa fino al 2011, quando è tornato un forte rallentamento. Il problema però è alla base. L'economia argentina non ha solide fondamenta, e a questo si aggiunge la scarsa lungimiranza della politica nazionale negli anni della ripresa. Il governo guidato da Cristina Fernandez de Kirchner, mentre l'economia galoppava, ha iniettato nel sistema politiche monetarie e fiscali espansive. Allentamento dei vincoli per i prestiti da parte delle banche commerciali, sussidi al settore privato, Banca Centrale sempre più forzata a stampare liquidità. Queste le linee guida del governo argentino, che hanno drogato in maniera quasi irreversile il sistema economico. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: inflazione a quota 25% circa, con seguente perdita di valore dell'export per via della crescita dei prezzi e una consistente e perdurante erosione di riserve di dollari. I problemi dell'economia reale si traducono anche a livello finanziario. I credit default swap argentini hanno toccato quota 2358 punti base, raddoppiando il proprio valore e doppiando pure quelli greci. Gli investitori sono avvisati. Un altro esempio, dei tanti, che indica la forte instabilità portata da politiche monetarie espansive.

giovedì 8 agosto 2013

Bank of England segue Bernanke e Abe, ma attenzione alla crescita facile

Dagli Stati Uniti al Giappone, fino all'Inghilterra. L'amore per una politica monetaria espansiva sembra aver contagiato proprio tutti. Perchè dopo le pompate di liquidità del premier giapponese Shinzo Abe e quelle del presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, ora ci si è messa, ormai da un pezzo, anche la madre patria inglese. L'annuncio di questa prosecuzione di tale politica monetaria è arrivato proprio ieri dal numero uno della Banca d'Inghilterra Mark Carney. Si manterrà una forte propensione all'espansione di liquidità fino a quando il tasso di disoccupazione nazionale non scenderà sotto la fatidica soglia del 7%. Un obiettivo che probabilmente sarà raggiunto solo nel 2016, grazie a un costo del denaro pari allo 0,5%, il minimo storico tenuto dalla Bank of England. In quasi tre anni da qui al 2016 tutto può succedere, come una leggera revisione della politica, nel caso in cui si verificassero condizioni inattese come un'inflazione superiore al 2% o instabilità finanziaria a causa di tassi d'interesse troppo bassi. Anche oltre Oceano non se la passano male. Ben Bernanke sta continuando a portare avanti una forte propensione alla liquidità, che non si fermerà fino a quando non saranno raggiunti gli obiettivi di disoccupazione e inflazione. C'è poi il Giappone, grande trascinatore sul versante di creazione di moneta, con l'Abenomics messo in campo del primo ministro Shinzo Abe. E intanto le borse, a parte qualche svarione, ringraziano. Un esempio, su tutti, Wall Street. Nel 2013, fino ad ora, la borsa americana ha guadagnato il 19%, oltre 1700 punti. Ora però la riflessione si fa più complessa. Ha senso mantenere tassi d'interesse al minimo per mesi e mesi? Lo so, sono abbastanza ripetitivo, ma ricordiamoci che fu proprio una persistente politica monetaria espansiva una delle cause principali per lo scoppio della bolla finaziaria-immobiliare del 2008, che poi a portato a tutto questo pasticcio, non ancora arginato. Wall Street dovrà pure ringraziare lo zio Ben per i facili guadagni ottenuti grazie alla sua politica, ma si deve curare da una lungimiranza messa in discussione dai fatti già successi dall'ultimo quinquennio. Senza dimenticare che l'espansione monetaria non fa parte della categoria di politiche di crescita economica “sane”.

martedì 11 giugno 2013

Abenomics: la causa per una Borsa drogata

Il Nikkei di Tokio sta recuperando, ma nelle ultime settimane l'indice giapponese se l'è vista brutta. Continui tonfi borsistici, con forti perdite che hanno ridotto i grandi guadagni degli ultimi mesi. Sembra che l'Abenomics non sia più in grado di garantire quella sicurezza che fino a poche settimane fa aveva monopolizzato il pensiero e le politiche economiche giapponesi. La politica monetaria fortemente espansiva da parte del neo premier Shinzo Abe, costituita principalmente da una forte svalutazione dello yen, ha nel suo obiettivo primario la lotta alla deflazione, con il raggiungimento di un livello d'inflazione del 2%. Una politica economica forse più appartenente a Krugman che alla tradizione keynesiana, quest'ultima più concentrata sulla spesa pubblica che sulla leva monetaria. Questa posizione, tenuta almeno inizialmente anche negli Stati Uniti, dal numero uno della Federal Reserve Ben Bernanke, sta lentamente declinando. E' vero, Bernanke continua a pompare liquidità nel circuito finanziario statunitense, ma alle prime parole del presidente della Fed su un possibile ridimensionamento, almeno in terra americana, di tale politica, le Borse sono andate a picco. L'effetto di questa politica monetaria, nel breve periodo, fa certamente respirare i mercati finanziari, dando anche grande impulso a consumi ed export. Detto questo, l'Abenomics non può essere una condizione continuativa. Bisogna infatti ricordare un particolare. Una Borsa drogata con utili e facili guadagni è pericolosa tanto quanto un indice di Borsa ferma o addirittura in perdita. La crescita in termini borsistici, per essere sana, deve essere accompagnata da un aumento esponenziale del valore dei prodotti e del Pil reale. Insomma, la borsa deve andare di pari passo con l'economia reale. Altrimenti succede come nel 1929 e nel 2008 dove espansioni a livello monetario ed enormi guadagni tendono a creare troppa euforia, che si traduce poi in bolle speculative, difficilmente controllabile. Mario Draghi, proprio poche ore fa, ha ricordato la necessità di intraprendere la strada di forti riforme economiche, che vadano a intaccare le debolezze strutturali della nostra economia, “sulla base delle misure che prese la Germania nel 2003”. Libertà d'impresa, liberalizzazioni, riforma del mercato del lavoro e riforma delle pensioni. Due di queste le abbiamo già approvate, ora però bisogna riformare fisco e burocrazia per le imprese.

martedì 30 aprile 2013

Letta ai nastri di partenza, mercati fiduciosi



L'insediamento del governo Letta e il buon risultato dell'asta dei titoli di Stato, entrambi nella giornata di ieri, hanno iniettato una buona dose di fiducia ai mercati. Milano regina d'Europa alla chiusura di ieri pomeriggio, con un +2,2% molto positivo, dovuto anche all'ottima collocazione dei titoli di Stato: il Tesoro ha piazzato tre miliardi di Btp a 5 anni con un rendimento annuo del 2,85%, in diminuzione rispetto al 3,65% della scorsa asta, e altrettanti miliardi sui 10 anni, con un tasso del 3,94%, anche questo inferiore all'asta precedente che aveva registrato un rendimento del 4,66%. La domanda ha toccato però la quota di oltre otto miliardi, per questo c'è grande fiducia anche per le aste prossime. Notizie positive anche dallo spread, che è sceso a quota 275 rispetto ai 282 punti base di venerdì. L'euforismo sui mercati finanziari è certamente anche il prodotto del nuovo governo presieduto da Enrico Letta, che proprio in serata ha ottenuto il voto di fiducia alla Camera in larga maggioranza e l'opposizione unica di Movimento 5 Stelle, Sel e Fratelli d'Italia, e con il voto al Senato in programma per oggi. Di buon auspicio anche le parole del neo presidente del consiglio Letta nel suo discorso di presentazione a Montecitorio, anche se certamente il programma appare molto ambizioso. Si va da una netta riforma della politica, con l'abolizione delle province, il taglio dei costi centrali  e l'abolizione del finanziamento pubblico, fino ad arrivare a misure espansive come lo stop dell'Imu sulla prima casa a giugno e la revisione dell'Iva, oltre alla risoluzione del problema degli esodati. Un altro e, a mio avviso fondamentale obiettivo proposto da Letta è la rivisitazione della legge Fornero sul mercato del lavoro. C'è bisogno di lavoro, anche con contratti a termine. L'idea è quella di favorire una forte flessibilità in entrata, non disincentivando in toto i contratti a tempo determinato, in modo da favorire le imprese nel breve periodo. Sul medio-lungo si cercherà di stabilizzare maggiormente i rapporti di lavoro, con incentivi all'assunzione di giovani e di neolaureati. Snellimento della burocrazia e investimenti nell'edilizia scolastica gli ultimi due punti di un programma ambizioso. L'unico neo è la non indicazione sulla copertura finanziaria per le misure immediate di politica economica. L'indicazione, dalla nostra parte, è sempre quella: tagli alla spesa pubblica improduttiva, vendita delle quote nelle aziende partecipate utilizzate solo come poltronificio per i politici locali trombati, e infine la dismissione del patrimonio pubblico non vincolato. In 18 mesi, come indicato dal premier Letta, non sarà facile fare tutto. Anzi,     le pressioni politiche della maggioranza saranno l'ago della bilancio per il governo. Se il governo di responsabilità riuscirà nelle sue intenzioni, allora l'Italia potrà finalmente uscire dallo stallo politico ed economico. Diversamente, i maggiori partiti dovranno assumersi la responsabilità di un altro fallimento.

venerdì 19 aprile 2013

Il suicidio del Pd, un nuovo 1998

E' iniziata male ed è finita peggio, con un revival del 1998, dalla gogna di Marini, passando per il siluramento di Prodi, fino alle dimissioni di Bersani. Tutto è partito con la scellerata decisione di optare come prima candidatura al Colle Franco Marini, poi rispedito al mittente, in cambio del governissimo con il Pdl. Successivamente, si è passati alla fase del suicidio politico, con 101 franchi tiratori, tutti interni al Pd, che hanno preferito frantumare un partito già a pezzi dalla batosta di giovedì, non votando il nome di Romano Prodi. Così si può riassumere la due giorni nera del Partito Democratico, e della sua dirigenza. Se per molti analisti e semplici elettori, giovedì è stata una giornata da dimenticare in fretta, ieri si è parlato di colpo di grazia per il Pd, chiusasi con le dimissioni da segretario di Pierluigi Bersani e della presidente del partito Rosy Bindi, che saranno formalizzate dopo l'elezione per il Quirinale. Non poteva essere altrimenti. Bersani, in linea con tutta la dirigenza, si è presa inizialmente la grande responsabilità di candidare Marini, spaccando già in un primo momento il partito fra i fedeli e dissidenti, primi fra tutti i renziani, che hanno optato per Chiamparino. Bocciato Marini, il Pd ha riprovato a tessere la propria tela convergendo ieri mattina sul padre del centrosinistra, Romano Prodi, nome acclamato all'unanimità nell'assemblea di ieri mattina e molto favorevole per Renzi. Al pomeriggio, la Caporetto del centrosinistra. Dalle urne dello scrutinio segreto i voti per Prodi sono 101 in meno rispetto alle aspettative, considerando il Pd compatto. “Uno su quattro di noi ha tradito”, questo il commento molto diretto di Bersani. La ribattezzata carica dei 101 è tutta interna al Partito Democratico, e non è difficile intuirne la provenienza. L'ombra dell'area dalemiana, riscontrata anche nei voti raccolti dal leader Maximo, si fa sempre più consistente, e la mente non può non ritornare a quindici anni fa, quando Prodi e l'esperienza dell'Ulivo furono affossati dall'inciucio che portò poi D'Alema alla presidenza del consiglio. In quindici anni non è cambiato niente. Anzi, qualcosa forse si. Ora il Pd è alle macerie, lo sanno bene anche una parte dei giovani turchi, ed è necessario ripartire anche sacrificando i propri beniamini di segreteria. L'ombra di D'Alema come nome per il Colle resta, anche se paiono molto più favorite due figure di grande profilo come Stefano Rodotà, sostenuto dai grillini e da alcuni tiratori franchi del centrosinistra, e Anna Maria Cancellieri, proposta da Scelta Civica, sulla quale potrebbe convergere i voti di Pdl e Lega. Insomma, con la maggioranza assoluta alla Camera, e quella relativa al Senato, il Pd non andrà ad eleggere un presidente presente nella rosa dei propri candidati. Ennesima sconfitta per un partito che ora come non mai ha bisogno di ripartire. A Firenze sono avvisati.

domenica 14 aprile 2013

Futuredem, speranza e futuro del Partito Democratico

Una settimana fa mi è arrivato un tweet di un amico, Mattia, conosciuto nei mesi scorso mentre seguivo a livello giornalistico e personale passione la campagna di Matteo Renzi per le primarie del centrosinistra. Mi invitava a partecipare da cronista al primo incontro nazionale di un nuovo gruppo di giovani appassionati alla politica, chi tesserato, chi simpatizzante del Pd, tutti però con la voglia di cambiare e rivoluzionare un partito fermo. Mi è sembrata una bella idea, e un'opportunità per la mia penna di poter scrivere qualcosa di nuovo da osservatore esterno, su un gruppo attivo, vivace e dinamico. E' il gruppo Futuredem, come l'hashtag che girava e che tuttora si trova su Twitter. L'idea, nata appunto sul social network, ha visto ieri a Firenze la sua benedizione iniziale, con una trentina di giovani provenienti da tutta Italia. Un numero molto esiguo rispetto ai molti più interessati al progetto, che, come già detto, punta a portare una ventata di novità all'interno della base giovanile, fin troppo chiusa, nella quale l'autoreferenzialità dei pochi mette in discussione una forte partecipazione. Tesserati, giovani democratici, simpatizzanti, semplici elettorali. Un'eterogeneità che non si ferma solo alla forma ma pure all'idea su leader e programmi. Non vogliono farsi codificare come Renzi Boys, anche se la componente renziana all'interno del gruppo è molto forte. D'altronde, inutile dirlo, Matteo Renzi incarna probabilmente l'unica vera possibilità di cambiamento per il Pd, visto anche il flop elettorale del partito targato Pierluigi Bersani. Le storie di questi giovani, specialmente liceali, universitari, ma non solo, si intrecciano con quelle dei  propri coetanei, sulla quale il nostro paese scommette sempre meno. Da qui, il gruppo Futurdem, per cercare di cambiare le cose. Nel pomeriggio i ragazzi si sono divisi in tre gruppi di lavoro, discutendo su organizzazione, programmi e potenzialità da sviluppare a livello comunicativo. L'obiettivo principale di Futuredem è quello di costituire una vera e propria associazione, più liberal rispetto ai Gd. "I margini per cambiare le cose ci sono - ammettono dal gruppo - però la lotta deve essere interna. La scissione non ha senso, il Pd per vincere deve essere forte e unito, ma con struttura, idee e volti completamente rinnovati". A livello comunicativo, sarà importante per questi ragazzi, una presenza folta nei social network, cercando di coinvolgere il maggiore numero di giovani possibile, anche tramite una summer school di politica pensata per il periodo estivo.  Interessanti gli spunti relativi alle piattaforme programmatiche: la parola meritocrazia rievoca quella parola merito, più volte citata da Renzi nella campagna per le primarie. Trasparenza in tutti i settori, dal settore pubblico a quello privato, fino ai contenuti e al linguaggio espressi dalla futura classe dirigente. A livello economico, infine, base per far ripartire il paese è fare di tutto perchè sia incentivato l'ingresso di nuovi talenti e l'imprenditoria giovanile. Facendola breve, questi ragazzi di Futuredem possono probabilmente rappresentare una nuova iniezione di forze fresche per il Partito Democratico del futuro.