venerdì 14 ottobre 2011

C'è ancora speranza

Credo nell’Italia. Ma quanti problemi, quanti malfunzionamenti, in questo paese di Pulcinella, dove la stragrande maggioranza guarda al proprio bene,dimenticando che siamo una nazione unita. Quanto cose ci sarebbero da fare, in questa nostra bella terra, e che invece non sono state fatte, con la politica latitante, lontana dai problemi quotidiani, impegnata più a salvare poltrone e propri esponenti inquisiti che a difendere gli interessi di lavoratori e impresa. Il punto vero della questione non è il rischio default, nonostante sia cruciale per il nostro futuro, ci mancherebbe, ma il disegno che c'è oltre questa situazione. Questo Paese non ha un futuro su cui focalizzare l'attenzione, perchè non si è mai posto il problema di cambiare. Cambiare in tutto, dalla politica alle grandi questioni economiche, dall'energia all'istruzione, per non parlare poi dell'etica pubblica. Ci siamo dimenticati di cambiare le facce (e le teste) dei nostri politici: si sono alternati dal 1994, sono in Parlamento da cinque legislature e non hanno risolto i nostri problemi. Correlato a questo ci siamo dimenticati di fare una serie legge elettorale. Anzi, a dire il vero l'abbiamo fatta, ma se l'ha definita “porcata” pure il firmatario, allora non possiamo rasserenarci. Ci siamo dimenticati di riformare il lavoro e la previdenza: siamo il Paese che ha di fatto creato il suo debito pubblico mandando in pensione i dipendenti pubblici dopo 15 anni di lavoro, un'assurdità che ci è costata cara. Proviamo a mandare in pensione chi se lo merita dopo quarant'anni di lavoro, togliendo invece i soldi a chi la pensione l'ha ottenuta a neanche quarant'anni d'età, magari dopo un mandato a Montecitorio. Riformiamo il lavoro e il fisco ad esso legato, in modo che le imprese scelgano modelli d'assunzione basati su contratti a tempo indeterminato, operando attraverso una fiscalizzazione di vantaggio a chi assume giovani laureati, o magari trattenendo anche in tempi di crisi i lavoratori cinquantenni, ovvero quelli che più difficilmente potranno ricollocarsi sul mercato del lavoro in piena crisi. Dobbiamo poi ripensare ad un piano per l'energia e per le infrastrutture, necessarie per lo sviluppo del paese. Troppi incentivi per le energie rinnovabili non servono, anzi a volte danneggiano il sistema drogando il mercato. Dal punto di vista energetico bisogna cercare di equilibrare la torta della produzione. La pesante decisione del popolo italiano di abbandonare il nucleare può essere comprensibile dal punto di vista emotivo, ma certamente nel prossimo futuro si farà sentire. Questo perchè il fotovoltaico non riesce a garantire ancora produzioni sufficienti, e l'apporto del nucleare nello scacchiere era fondamentale. Sulle infrastrutture siamo indietro di parecchi anni. Oltre alla Tav, necessaria per il corridoio Europeo, è necessario una sburocratizzazione immediata delle procedure e uno sblocco delle risorse, attualmente bloccate dal patto di stabilità, che i Comuni hanno in giacenza, e che potrebbero dare un grosso aiuto in questa fase di recessione, mentre per le grandi opere sarà necessario il coinvolgimento di soggetti privati. Infine dobbiamo rifondare completamente il sistema universitario. Tralasciando un attimo la scuola di base, puntiamo al sistema universitario. La rivoluzione meritocratica deve essere centrale, al pari della ricerca. Per aumentare la qualità dell'istruzione dobbiamo sì selezionare bene i professori, ma non basta. Gli studenti sono tantissimi, e i corsi di laurea pure. Avanzo la proposta di mettere il numero chiuso a tutti i corsi, da verificare in base alle reali esigenze e iscrizioni. Agendo invece sulle tasse universitarie, farei un cambio di rotta, seppur molto contestabile. Tagliare le tasse d'iscrizione per le facoltà scientifiche, e incrementare leggermente quelle umanistiche. Questo non per discriminare qualcuno, ma per le reali esigenze di questo paese, che necessita un maggior numero di ingegneri, chimici, fisici e matematici. Tagliare le consulenze, e utilizzare quei fondi per bandire concorsi per nuovi ricercatori, svecchiando il personale. Tagliare gli stipendi dei rettori, rendere pubblici i bilanci, e autonomia finanziaria, tre capisaldi per ripartire. Tutto ciò che ho detto possono sembrare solo parole, e in effetti lo sono, destinate a rimanere tali. Ma io confido in una nuova classe politica, giovane, che si alleggerisca lo stipendio e che adotti una significativa cura dimagrante allo Stato, che venda i beni inutilizzati dello Stato, che rende possibile un federalismo fiscale equo, che prelevi più tasse su yacht, ville e paradisi fiscali piuttosto che colpire le rendite finanziarie, oltre a fare una tosta legislazione anti evasione. Solo così potremo avere risorse e cervelli per ripartire. Ma la strada è ripida e lunghissima. Ricordiamoci che siamo ancora il Paese in cui il presidente di una provincia del Trentino guadagna di più di Barack Obama.

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